Animotion – Wallace & Gromit: Le piume della vendetta, la Aardman su Netflix

Reo di avere rubato il prezioso diamante blu e di aver commesso altri numerosi furti, il temibile e abile ladro pinguino Feathers McGraw trascorre da anni le sue giornate allo zoo, il carcere di massima sicurezza in cui è stato spedito dopo la cattura per mano dell’inventore Wallace e del suo cane Gromit. In gabbia, lo scaltro furfante non solo pianifica una magistrale evasione ma cova in segreto pure un piano diabolico per vendicarsi del tonto inventore e del furbo bracchetto che, anni prima, erano riusciti ad incastrarlo. Nel frattempo, in un piccolo paesino del Wigan, tra una geniale invenzione e una fetta di formaggio Wensleydale le nuove diavolerie dell’inventore, sempre alla ricerca di soluzioni per rendere la propria esistenza più comoda, si rivelano più un intralcio che un beneficio. L’ultima di queste si chiama Norbot, uno gnomo-robot in grado di svolgere alla perfezione lavori di giardinaggio e bricolage e, in pratica, destinato a sostituirsi al tuttofare Gromit e a tutti coloro che se ne serviranno.

 


 

Ma il gentile e operoso bracchetto mal sopporta la nuova invenzione perché gli toglie il piacere dei suoi lavoretti, gli rovina la potatura delle siepi e lo tormenta col suo comportamento robotico, soprattutto di notte con i suoi rumori meccanici e soprattutto di fronte a Wallace mostrandosi servile a dismisura. Tuttavia Norbot ha un grande successo nel quartiere e genera interesse in molti paesani che decidono di prenderlo in affitto affinché svolga faticosi lavori domestici. La fama ottenuta da Wallace per la geniale invenzione rimbalza tra i media e raggiunge pure Feathers McGraw che, dalla sua gabbia organizza la sua vendetta proprio mediante l’aiuto del Norbot. Inizia così Wallace & Gromit: Le piume della vendetta, decimo lungometraggio realizzato dalla Aardman Animations, co-prodotto da Universal Pictures, Amblin Entertainment, BBC, StudioCanal UK e distribuito direttamente da Netflix sulla propria piattaforma. Lo studio d’animazione britannico fondato da Peter Lord e David Sproxton, celebre per i suoi pupazzi di plastilina animata grazie allo stop-motion o claymation, esattamente vent’anni dopo il successo raccolto da Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro film che valse la conquista del premio Oscar nell’animazione nel 2006, investe nuovamente sulla coppia strampalata formata dal tonto inventore e dal furbo cane per aggiungere una nuova tessera al proprio mosaico artistico e produttivo. E non poteva esserci spunto migliore di quello offerto da una vicenda in cui, a parte le inevitabili gag e i rocamboleschi inseguimenti, ci si interroga seriamente sul ruolo e sul senso della tecnologia nella nostra vita, oggi, sempre più esposti alla presenza dell’intelligenza artificiale e sempre più immersi in relazioni virtuali.

 


 

Nulla di nuovo per lo studio di Bristol (basterebbe pescare dal mazzo dei cortometraggi per rendersi conto che da sempre questo aspetto viene sviluppato con sagacia) però, e questo è il punto, tutto necessario e atteso per lungo tempo. Fin dalla singolare scelta di riattivare e rianimare una vicenda del passato dandole nuovo respiro e nuova profondità, la percezione è che Aardman abbia voluto ribadire i concetti che fin dalle origini hanno contraddistinto il proprio operato, giocare un po’ sul sicuro, consegnando al proprio pubblico quello che a tutti gli effetti sembra essere una graziosa sorpresa, un dono atteso, una promessa mantenuta. Un pubblico coltivato nel tempo e fatto crescere attraverso storie corte che sporadicamente hanno saputo ritagliare una significativa fetta di spazio nel mondo dei lungometraggi animati, consapevoli del rischio a cui andavano incontro, ma sempre disposti a mettere in discussione le regole dell’intrattenimento. E così, a distanza da un anno dal reboot di Galline in fuga – L’alba dei nugget (anche quel titolo immerso nella dimensione politica, ecologica, etica), ecco ora il riavvio della saga di Wallace & Gromit, coppia di opposti complementari, nati per il formato televisivo ma capaci di imporsi (un tempo) con grazia, simpatia e coraggio anche sul grande schermo luogo ideale per esaltare il ritmo dell’intreccio delle vicende (ma su Netflix il film non sbiadisce).

 


 

A dirigere troviamo il veterano dello studio Nick Park (già alla guida dei primi due lungometraggi dello studio, ad oggi vertice artistico e creativo dell’intera produzione Aardman) insieme a Merlin Crossingham, interessati a mescolare sci-fi distopica e orrorifica a noir, action e crime, coadiuvato dalla scrittura di Mark Burton, fidato sceneggiatore dello studio abile nel rivitalizzare un personaggio forte come il temibile pinguino Feathers McGraw (che guarda al De Niro di Cape Fear), indimenticabile villain di uno dei capolavori dello studio d’animazione, quel The Wrong Trousers che nel 1993 vinse l’Oscar per il miglior corto animato) filmino dove Wallace e Gromit diventavano loro malgrado assoluti protagonisti di uno degli inseguimenti più folli e emozionanti del cinema d’animazione, evocando le dinamiche vivaci e il sentimento del cinema di Buster Keaton. Qui nella versione lunga non c’è il ritmo e la vitalità che contraddistinguevano quel cortometraggio, certo, ma in questo reboot/spin-off si respira ancora l’aria di un cinema artigianale che, pur avendo dovuto fare i conti con i tanti stravolgimenti del mercato e delle innovazioni tecnologiche (beninteso, pure qui si fa uso di CGI ma in modo non troppo invasivo), non rinuncia alla propria identità, continua a resistere e a proporre uno spettacolo sano e godibile, divertente e unico a suo modo, in cui il valore dell’immagine (e dell’immaginazione) precede tutto il resto, e dove si mantiene un filo diretto con lo spettatore rispettandone lo sguardo, convocandolo di continuo a cercare indizi, varchi, risposte. Basterebbe guardare con attenzione la sequenza della manomissione del computer dello zoo da parte del pinguino, esempio di cinema delle attrazioni, tutto intriso di silenzi e suggerimenti, immagini e gag. È un cinema un po’ malinconico e gentile, fatto di visioni segrete e inaspettate, sorprese che spuntano fuori all’improvviso e in cui l’idea di fondo resta quell’incrollabile, incessante, irrinunciabile fiducia nell’uomo. Come suggerisce un finale fin troppo conciliante ma efficace e simpatico, dove si ricorda che il problema non è la tecnologia in sé ma l’uso che se ne fa. Forse Gromit ne era già consapevole ma Wallace, evidentemente, no. E comunque ribadirlo non fa male, a grandi e piccini.