Arpón, primo lungometraggio del venezuelano Tomás Espinoza presentato in concorso al 35 Torino Film Festival, racconta di una giornata destinata a cambiare molte vite. Germán Argüello (Germán De Silva) è il preside atipico di una scuola superiore: accoglie gli studenti frugando nei loro zaini, violando la loro privacy e imponendosi su coloro che non vogliono sottostare ai suoi metodi di controllo. Per esempio Cata (Nina Suárez Bléfari), quattordici anni, che si chiude in bagno ma viene comunque trovata in possesso di una siringa usata per iniettare una sostanza oleosa nelle labbra delle amiche e nelle sue. Dal momento che la madre è fuori città, il Preside decide di farsi carico della ragazzina, ma questa assunzione di responsabilità non richiesta avrà delle conseguenze sulla sua esistenza privata e lavorativa. Il film si apre e si chiude sulla questione dell’importanza di dare un nome alle cose e questo sembra essere l’assunto che regola tutte le dinamiche perché ognuno è diverso da come appare: il rigoroso Germán ha una relazione – e ne sono a conoscenza sia gli alunni sia i colleghi – con la prostituta Mica (Laura López Moyano) e se all’inizio sostiene che «una prostituta è prima di tutto una persona» alla fine anche lui la stigmatizza; la collega Sonia (Ana Celentano) asseconda i metodi poco ortodossi di Germán salvo poi ritrattare e abbandonarlo al suo destino; Cata, come gli altri adolescenti, mette in atto una ribellione sterile e fine a se stessa e la stessa Mica racconta a Germán il futuro che la aspetta, ma forse è più un sogno che la realtà, nonostante siano proprio le sue parole a innescare l’effetto farfalla.
Espinoza, anche autore della sceneggiatura, gira come si trattasse di un documentario, tallonando da vicino i suoi personaggi ed esclude il terzo elemento della relazione scuola-famiglia ovvero i genitori che sono presenze fantasmatiche, solo capaci di esprimere il loro disappunto verbale nei confronti del preside o sono una voce al telefono, ma sono comunque lontani, non solo fisicamente. Anche i ragazzi appaiono distanti, chiusi nel loro mondo con in mano delle armi, siano esse una siringa, un arpione o il cellulare (usato per riprendere i contrasti a scuola o il massaggio cardiaco praticato sulla spiaggia). Gli adulti presenti sono, invece, inadeguati e devono assumersi le loro responsabilità affinché l’ordine venga ristabilito. Ma, forse, alla fine si riesce a chiamare le cose con il loro nome. E questo è quello che conta.