Una rivisitazione cannibalesca di Cantando sotto la pioggia, una ricostruzione paradossale, vitalistica e allo stesso tempo disperata, delle origini del cinema, di quel passaggio traumatico non solo dal muto al sonoro, ma anche dal cinema artigianale, senza regole, accozzaglia di pionieri e avventurieri pieni di talento e privi di scrupoli, al cinema industriale, in cui ogni cosa è diventata schedulata, normata, controllata, parte di un flusso di lavoro inesorabile. Tutto questo è Babylon (2022), scritto e diretto da Damien Chazelle, già vincitore di un Golden Globe per la migliore colonna sonora originale, realizzata da Justin Hurwitz. Ma soprattutto Babylon ricostruisce, o forse faremmo meglio a dire reinventa, il passaggio dal cinema come linguaggio senza briglie, senza codici, tutto da inventare, benedetto da un rapporto senza inibizioni con la realtà, rappresentata dunque senza censure, al cinema come linguaggio maturo, imprigionato in un codice di moralismo autoimposto funzionale all’autoconservazione dell’industria, divenuta nei decenni megafono della nazione capitalistica per eccellenza, dunque un linguaggio via via più convenzionale, imbrigliato in un rapporto normalizzato e ideologizzato con la realtà. Occorrerà aspettare fino alla New Hollywood degli anni Settanta per vedere crollare l’impalcatura di norme e censure, peraltro subito ripristinate nel cinema disimpegnato degli anni Ottanta. Chazelle ricostruisce quel passaggio con un furore del dettaglio e un gusto per il barocchismo sia visivo sia sonoro che lascia a tratti senza fiato, modulando una sintassi narrativa libera, rapsodica, in cui si segue la linea del tempo, ma allo stesso tempo si salta, si balla, si incespica, ci si contorce e alla fine si torna regressivamente indietro, all’inizio, con uno sguardo che è allo stesso tempo quello della disperazione per un mondo perduto e quello dell’ammirazione nostalgica per un seme che ha dato i suoi frutti.
Un film al cubo, se si pensa che Cantando sotto la pioggia era a sua volta un film al quadrato: se la pellicola del 1952 raccontava della realizzazione di una pellicola del 1927, la pellicola del 2022 si conclude proprio con l’avvenuta realizzazione della pellicola del 1952, guardata sul grande schermo dal protagonista autoesiliatosi dal mondo del cinema come una rilettura impietosa dei fatti “realmente” accaduti sotto i suoi occhi nel 1927. Se però la Hollywood classica, ricchissima e sicura di sé, rappresentava in Cantando sotto la pioggia il passaggio dal muto al sonoro nei toni fiabeschi, sentimentali ed edificanti del musical, la Hollywood contemporanea, terrorizzata dalla minaccia di dissoluzione che la assedia da anni, rappresenta in Babylon quello stesso passaggio nei toni iperrealistici, materialistici e cinici di un racconto che unisce i toni del film epico con le sue arcate narrative ampie e quelli del mondo movie con la sua moltiplicazione parossistica dei dettagli. Il cast è strepitoso, a partire da Brad Pitt, che tocca tutte le corde del mito hollywoodiano, incarnando in Jack Conrad il tipo umano al centro dell’American Dream, colui che crede nel futuro, si fa da solo, inventa se stesso e la sua vita, ma a un certo punto viene spazzato via dallo stesso progresso che ha generato, costretto a lasciare spazio alla generazione di uomini successiva.
Carisma, forza, prestanza fisica, malinconia, disperazione: tutte le note di questa polifonia emotiva scorrono sul volto di questo attore mai veramente del tutto riconosciuto nella sua grandezza. Bravissime anche Margot Robbie (Nellie LaRoy) e Diego Calva (Manny Torres), i due giovani che dal nulla si trovano catapultati nel mondo del cinema e per un brevissimo periodo hanno successo, ma sono divorati, l’una dalla sua pulsione autodistruttiva e l’altro dall’amore maledetto per lei. Tutti e tre personaggi sono perdenti, ma restano grandi perché in definitiva decidono liberamente della loro vita: l’attore sul viale del tramonto decide di fermarsi quando la sua non ha più senso, l’attrice giovane demolita dallo star system si allontana nel buio, il giovane produttore talentuoso mette su famiglia. Allo sguardo finale di Manny, che in una sorta di allucinazione atemporale ed extradiegetica, elettrizzante come il prologo di Persona di Ingmar Bergman che peraltro incorpora, ripercorre tutta la storia del cinema dalle origini fino ai giorni nostri, è consegnato il senso dilaniato di una pellicola che celebra la grandezza di un’arte resa immortale da più di un secolo di vita e allo stesso tempo ne certifica l’agonia.