È completamente sbilanciato sulla storia del tennista svedese il film Borg McEnroe che, con il pretesto di raccontare la storica finale di Wimbledon del 1980, fa un excursus sui due personaggi e su un’epoca finita da tempo, forse proprio a partire da questo preciso momento. Il regista danese Janus Metz Pedersen (autore di documentari e serie televisive, tra cui un episodio di True Detective) scompone una storia e trasforma in un caleidoscopio di possibili derive. Borg, il suo presente di tennista imbattibile, il suo passato di ragazzo timido ma determinato a diventare il numero uno al mondo, contrapposto a McEnroe, enfant prodige newyorkese, ribelle e irascibile in ogni parte della sua vita. I due compaiono in scena con un certo sfalsamento. Prima lo svedese, ovviamente, con tutto il carico di responsabilità di un atleta che deve mantenere il titolo conquistato quattro anni prima, poi l’americano, destinato a scompigliare l’ordine maniacale di uno sport che non sarà mai più lo stesso. Due lati della stessa medaglia, due uomini che si specchiano e riconoscono dei frammenti di sé nell’altro. Come quando Borg riconosce nell’aggressività del rivale l’adolescente che è stato, anche lui sempre pronto a scatti di rabbia fino a quando ha imparato a trattenere le emozioni per farle esplodere nel gioco. Si scopre, così, che l’algido svedese non era poi diverso dal suo rivale di oggi e che proprio in quella partita passata alla storia, nascerà la loro amicizia. Il film è quasi un documentario per la lucidità con cui Janus Metz Pedersen insegue i suoi personaggi, per i lunghi primi piani, per le scene di silenzio e attesa. Una vita intera condensata nello scorrere dei flasback, in un continuo andirivieni temporale, che è poi rappresentazione della velocità dei pensieri del protagonista e della folla di immagini che si susseguono nella sua mente. Ancora una volta il tennis è strumento di autoanalisi (sul campo sei tu il tuo vero avversario), raddoppiato dal cinema e dal suo cercare nuove aperture per nuovi punti di vista. L’andamento spezzato ha precisamente lo scopo di rendere visibile, enfatizzandolo, il conflitto interiore di ciascun personaggio.
Trasformare in epica un racconto che segue una linea confusa, mentre ogni divagazione è uno stratagemma per trattenere il tempo e rinviare il momento decisivo, cui quasi ogni dialogo fa riferimento. Al tempo stesso Borg McEnroe è un film che possiamo definire classico, perché ben si serve dello schema più tradizionale entro cui plasmare la propria storia: la crisi psicologica, la fragilità e, infine, la restituzione di una nuova sicurezza attraverso l’eleganza e la maestosità del gesto del tennis, offerto, anzi, liberato finalmente allo sguardo di tutti. Un duello reale e metaforico, sottolineato da una velocità di montaggio efficace e ripetitiva, ipnotica nel saper sfruttare l’alternanza e le pause improvvise con la maestria di un musicista. Dentro e fuori i panni di Borg, grazie all’uso di camera a mano e steady-cam, per essere più immediati e assecondare le esigenze di realismo di un film che sceglie di lavorare su un surplus di realtà per maggiore incisività.