Sam vive in un bell’appartamento di East Los Angeles che non può permettersi. Ha la casa tappezzata di manifesti di film d’epoca, ama Kurt Cobain, ciondola senza attività e, soprattutto, spia le vicine di casa con un binocolo: una fricchettona che ha un pappagallo e gira nuda sul terrazzo e una biondina con cane che una sera riesce ad abbordare, finendoci a letto solo per guardare teneramente in tv Come sposare un milionario di Negulesco. Lei presto scompare e lui decide di mettersi sulle sue tracce venendo risucchiato in un vortice di situazioni surreali: giovani donne sempre in trio e compositori onnipotenti, biscotti psicotropi e assassini di cani, pubblicità occulte e messaggi satanici su vinile, miliardari scomparsi e fumettisti paranoici, tunnel sotterranei e tombe di faraoni. David Robert Mitchell, che nei primi due film aveva descritto in maniera minimale e precisa le difficoltà sentimentali e i turbamenti sessuali di adolescenti dell’area suburbana di Detroit, declinandoli prima attraverso il teen movie (The Myth of the American Sleepover) e poi attraverso l’horror (It Follows), abbandona suburbia e raggiunge la megalopoli, aumentando a dismisura anche la propria ambizione e, essendo ancora instabile sulle proprie gambe, affidandosi con troppo slancio a gambe altrui.
Under the Silver Lake (in concorso) è sovraccarico di citazioni, rimandi, suggestioni, a volte accennate e a volte insistite, che cercano di ammantare di mistero una sceneggiatura ostentatamente incoerente e frammentaria, suggerendo continuamente l’ombra di altri film possibili, di altre storie potenziali, di altre ipotesi combinatorie. Mitchell guarda a Hitchcock (La finestra sul cortile e La donna che visse due volte) e a De Palma (Omicidio a luci rosse), ad Altman (Il lungo addio) e a Lynch (Mulholland Drive e, ancora di più, INLAND EMPIRE), fonde teorie del complotto e riflessioni sui misteri della creatività, riscrive i topoi su L.A. e ipotizza idee sull’uniformità della cultura popolare. Lo fa con uno stile patinato – come il numero di Playboy che ha rubato al padre e che gelosamente conserva – e saturo di “canoni”, dall’utilizzo del grandangolo alla colonna sonora à la Bernard Herrmann, dal feticismo per i poster (e per la chitarra di Cobain che si trasforma in arma) alla variopinta playlist musicale, dall’immancabile momento lisergico alla variabile della dark lady, qui ragazza innocente da salvare. Mitchell sembra non avere priorità: aggiunge, allunga, affastella lasciando spazio a un’ipertrofia dell’immaginario che è consapevole della propria natura derivativa senza però riuscire a mantenerne il controllo. In Under the Silver Lake si rischia di affogare (il film è, peraltro, pieno di acqua) e di perdere anche le cose migliori, diluite all’eccesso, masticate e trasformate come in un continuo ciclo citazionista. Andrew Garfield, con una perenne espressione indefinibile, si aggira in un paese delle anti-meraviglie, segue la yellowbrick road che porta al castello di Oz attraversando una città piena di tombe e di morti, che rimanda continuamente al passato (anche e soprattutto cinematografico: Borzage, Siegel, Janet Gaynor) che affiora continuamente da ogni immagine, colore, suono. Ogni avvenimento rimanda a qualcos’altro, tutto è variazione sul tema nell’impossibilità di trovare una coerenza nel mondo. La venatura acida del film, che rimanda a Lynch senza averne il mistero, ricorda quella di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, che però poggiava il suo sguardo sul passato ipotetico avendo alle spalle un grande romanzo di Thomas Pynchon, autore che sfalda le trame ma non le disprezza. Mitchell invece sembra negare ogni possibile coerenza narrativa e lascia che le scene migliori del suo film galleggino in un magma troppo spesso indistinto per quanto a tratti fascinoso. La sensazione è che la ricerca di Mitchell di dare un senso al proprio immaginario (e al nostro) si limiti alla superficie, alla patina che tutto ricopre e uniforma, piegandosi alla filosofia del catalogo piuttosto che a quella dell’elaborazione. Under the Silver Lake finisce così per restare incastrato in una certa megalomania, vittima del gusto onnivoro che appiattisce anche i lampi del talento evidente del suo autore. Un caleidoscopio sovraccarico che somiglia purtroppo a un’occasione mancata.