Bisogna innanzitutto partire dall’antefatto, e dalle circostanze che hanno spinto Jafar Panahi a scrivere e realizzare Tre volti ( 3 Faces). Il film nasce dai molti messaggi che il regista riceve sui social network di giovani determinati a fare cinema. A partire da questa considerazione (e da un fatto di cronaca relativo ad una giovane suicida cui era stata proibito una strada nel cinema), Panahi, interdetto anche lui dal 2010, decide di compiere un viaggio dentro la settima arte nel modo più facile e personale possibile, ma tenendo ben presenti i riferimenti del passato. Nasce così 3 Feces, che fin dal titolo enuncia la molteplicità di livelli, quello intimo e quello splendidamente speculativo sul senso di fare (ancora) cinema e sulle contraddizioni e gli equivoci del mondo delle immagini contemporanee. Perché, si diceva, tutto ha inizio dal video di un suicidio, che racchiude in sé l’inganno e lo slittamentodella verità, anche in un contesto reale come quello in cui il film è ambientato (l’attrice Behnaz Jafari che riceve il video, convince il regista Panahi a partire per verificare e, forse, prevenire il peggio).
Tre villaggi collocati nel nord-ovest dell’Iran, nella parte azera di lingua turca, dove gli abitanti sono particolarmente legati alle tradizioni. Qui, una ragazza, cui viene impedito di fare l’attrice, si filma nell’atto del suo proprio suicidio. Verità? Manipolazione? Finzione? Differenze sottilissime ma sostanziali, che mostrano nel corso dell’indagine un microcosmo in profondità, nel senso delle successive quinte che si aprono e di personaggi cui rendere omaggio. Quasi una non storia che sconfina continuamente oltre la messa in scena, eppure anche uno sguardo al cinema iraniano tra passato e futuro – ostacolato più volte e in diversi periodi -attraverso l’allusione e il ricorso alle tre attrici protagoniste (volti del passato, del presente e del futuro), a partire dalla leggenda del cinema iraniano Shahrzad, bandita dalla recitazione subito dopo la Rivoluzione, che qui presta il suo nome e la sua voce mentre recita una sua poesia, ma che si lascia filmare solo da lontano, di spalle intenta a dipingere in giardino, come a voler rafforzare il silenzio e l’assenza che pesano più di ogni immagine. Un film sul cinema, dunque, come tutti i film “proibiti” di Panahi, che nel movimento o nell’attesa, si interrogano su quello che è stato e sulle limitazioni che soffocano la libertà. Anzi, un film sul cinema iraniano, dalla nouvelle vague rurale della fine degli anni Sessanta ai giorni nostri, da Amir Naderi (compare qui tra le altre cose l’attore Behrouz Vossoughi che era stato lo splendido protagonista nel 1974 del suo Tangsir) a Kiarostami, con i viaggi su e giù per le montagne, le strade che sembrano non portare in nessun luogo e la ricerca di qualcuno e di qualcosa che è accaduto (il riferimento è soprattutto a E la vita continua). Panahi ancora una volta, per esprimere la sua esperienza del mondo sceglie “la strada tortuosa” che ancora esiste “anche se oggi non è più utilizzata. Le auto prendono generalmente un’altra strada, più ampia e asfaltata” escludendo allo sguardo incontri straordinari con la vita, che continua in modi affascinanti e poetici.