Cafarnao significa moltitudine, gruppo confuso, luogo di disordine. L’etimo rimanda a una città della Galilea, sulle sponde del lago di Tiberiade, dove Cristo visse dopo Nazareth e iniziò la sua predicazione. La Cafarnao di Nadine Labaki è Beirut, nei cui vicoli si svolgono e si intrecciano le storie di Zain e della sua famiglia, dell’etiope Rahil e del suo bambino e poi di altre figure, più o meno losche, che abitano strade, negozi, mercati, aule di tribunali. Zain, dodici anni vissuti troppo in fretta, ha fatto causa ai suoi genitori per averlo messo al mondo senza avere la cura e l’attenzione necessaria per farlo crescere. Su questa intuizione spicciola Labaki costruisce il suo film (in concorso) in maniera episodica, svelando poco a poco l’esistenza dura e miserabile di un bambino costretto già all’età adulta, abituato alla strada e capace di farsi valere a dispetto dei suoi pochi anni. Scappato da casa dopo che la sua sorellina, undicenne, è stata data in sposa a un commerciante, Zain incontra Rahil e diventa responsabile di un’altra famiglia, dove l’amore è avvelenato dalle necessità quotidiane, dalle identità negate per assenza di documenti. Labaki mette in scena il suo dramma non risparmiando nessuna enfasi retorica, in un crescendo di situazioni ricattatorie e immagini del degrado – morale e civile – di un’intera società. Zain è vittima purissima, piccolo uomo costretto a imparare sulla propria pelle i drammi della vita.
Parla come un sociologo disilluso («la mia vita è più sporca della suola delle mie scarpe») e mostra una tenacia consapevole e un’ostentata voglia di rivendicazione. Cafarnao è un catalogo di disastri, alterna realismo miserabile a momenti di ridondante regia (droni, ralenti, panoramiche); gioca con i sentimenti prendendo alla pancia senza mai affrontare il nocciolo della questione; affastella argomenti bollenti (l’infanzia negata, l’immigrazione clandestina, il traffico di neonati, le spose bambine) con l’ansia della pubblicità progresso: una lezione di buona coscienza che usa il cinema come un martello pneumatico, mirando solamente allo stomaco. Parla di esistenza e identità con parole confuse, ostenta pietà per i personaggi con un moralismo da salotto buono, crea un cinema maternalista ma gretto, impicciato, ipocritamente sentimentale. Il risultato è un film in cui si finisce per non pensare, per non analizzare, per non capire (la salita alla finale apoteosi tragica è in fondo una via crucis urlata, banale e lacrimosa) rintanandosi in una buona coscienza che non può – non deve – essere un alibi. Un distillato di cinema del dolore che indica la luna ma guarda solo, e male, il dito.