Lizzy Carr è una scultrice. Le sue creazioni sono piccole donne in ceramica, strambe ed enigmatiche, i cui colori brillanti si mostrano solo dopo la cottura, come farfalle uscite dalla crisalide. Lizzy affitta la sua casa studio da Jo, una sua collega della scuola d’arte dove studia e lavora, anche lei artista, meno introversa e più compiuta, talmente concentrata su se stessa da dimenticare di riparare il funzionamento dell’acqua calda nell’appartamento di Lizzy, impossibilitata a farsi una doccia ed esasperata da questa reiterata inadempienza. Lizzy ha un gatto rosso, unico essere vivente con cui il rapporto sembra stabile, che una notte aggredisce un piccione entrato non si sa come in casa. Il gatto lo ha ferito a un’ala ma Lizzy è incapace di accudire chicchessia e se ne sbarazza gettandolo dalla finestra. Jo, più determinata e impulsiva lo troverà e deciderà di curarlo, usando però Lizzy come pet-sitter, costringendola a fare i conti con il suo apparente distacco. Lizzy viene da una famiglia tanto creativa quanto disfunzionale: la madre gestisce la struttura dove Lizzy lavora; il padre è uno scultore ormai inattivo che mostra uno scarso interesse per i figli; il fratello Sean sta scivolando in una depressione senza fondo che gli toglie ispirazione per le proprie creazioni, che lo isola in una solitudine senz’arte.
Kelly Reichardt in Showing Up tratteggia con pennellate appena accennate il placido quotidiano di questa comunità artistica di Portland mettendo in luce gli aspetti più sfumati, ordinari, estranei a qualsiasi visione glamour. La ricerca creativa è un’occupazione ordinaria, che richiede impegno e che può generare una certa svogliatezza. La paura di deludere le proprie ambizioni sembra spingere a un grigiore sospeso; la competizione creativa si spegne in pigrizia; il furore artistico è una fiammella che a volte non si alimenta per terrore di fallire. Lizzy vive in perenne understatement anche perché sa bene che il successo, nel suo campo, ha ragioni labili e potrebbe non arrivare mai. La competizione si mescola al disincanto anche nelle relazioni umane: Lizzy è sola anche in mezzo agli altri e anche gli affetti familiari si misurano con una tiepida distanza. Michelle Williams regala con precisione l’apparente grigiore di Lizzy, la sua tormentata trasandatezza con un’interpretazione sfumata, tutta in levare. In Showing Up succede ben poco e le scene si succedono in maniera quasi circolare, si ripetono come in un disco rotto. Ma sono proprio i piccoli imprevisti – una scultura che cuocendosi troppo assume sfumature inaspettate; un uccello ferito che stimola sensazioni inattese – a determinare la possibilità di un punto di svolta, l’accenno di un cambiamento. Nel finale, durante l’atteso vernissage in cui Lizzy espone le sue opere, finalmente il quadro si allarga: i personaggi, che prima si sfioravano in sequenze separate, finiscono per convergere per regalare una visione emotiva di insieme e una potenziale nuova idea di futuro. Showing Up improvvisamente si apre, prende fiato e trova senso. Certo, in un film di consapevole e ostentata semplicità, l’uso smaccato di una metafora come quella del piccione impossibilitato al volo che la protagonista forse impara ad amare suona un po’ forzato; la pudicizia del racconto rischia di rendere a tratti la narrazione fin troppo dimessa. Showing Up però ha una sua forza nascosta che lentamente cresce fino a trovare una sua espressione, una sua sensibilità. In fondo quello dell’arte è un mondo come un altro, con le sue regole e i suoi canoni all’interno dei quali ciascuno è costretto a trovare il proprio spazio, un modo per combattere le pressioni e raggiungere una propria maturità, non solo artistica.