Ciao amore, vado a combattere – L’orgoglio di una vita in lotta

Un’immagine sgranata: una donna di spalle inginocchiata su un ring, una tigre bene in vista sulla sua canottiera. La stessa donna cammina in aeroporto, si imbarca in volo: osserva, probabilmente per la millesima volta, le luci di una città che scompaiono nella notte. Il passato, il presente, forse il futuro. Inizia così, con la prima delle tante ellissi che seguiranno, Ciao amore, vado a combattere, il documentario che Simone Manetti ha costruito, cucito, plasmato sulla sua protagonista: Chantal Ughi è stata modella, attrice (con Peter Del Monte e Giuseppe Piccioni), musicista e musa della scena underground newyorchese. Poi, seguendo un’ennesima giravolta, si è reinventata finendo per diventare campionessa del mondo di Muay Thai, un ibrido thailandese tra boxe e arte marziale, forma di ricerca esistenziale prima ancora che fisica, esercizio feroce per piegare il proprio corpo e spegnere il fuoco di una vita passata a fuggire da un’infanzia dolente. Manetti – esperienze come montatore per Paolo e Carlo Virzì, Giuseppe Gagliardi, Edoardo De Angelis – racconta come in un mosaico l’esperienza di una vita frammentata, segue Chantal in palestre e case umili, cerca continuamente nei suoi occhi una traccia di verità, piega il racconto a tempi e ritmi non convenzionali, saltabecca tra passato e presente seguendo un filo emotivo che piano piano va a ricomporre un’esistenza in cui la fragilità ha lasciato spazio a muscoli e sudore, in cui la voglia di ricostruirsi passa attraverso la fatica e la solitudine. Unendo meticolosa osservazione, interviste, materiali di repertorio di varia e disomogenea provenienza, Manetti miracolosamente costruisce un personaggio indimenticabile utilizzando con sfrontatezza un linguaggio più consueto per il cinema di finzione che per il documentario.


La struttura narrativa genera una sorprendente tensione emotiva, il disvelamento dei traumi del passato si snoda con pudica precisione, il rapporto tra Chantal e i personaggi che brevemente la accompagnano– su tutti il suo ex allenatore, con cui ha un rapporto di tale silente intensità da ricordare Million Dollar Baby – è descritto con una scansione da metronomo, le musiche di Francesco Motta sottolineano i numerosi e mai gratuiti momenti di stasi, abbandonati alla contemplazione di una figura emblematica e del paesaggio che attraversa, senza fermarsi mai. Perché quella di Chantal è una continua ricerca di sé, un immergere con decisione la testa nelle acque buie dei dolori più incancellabili, in uno spostamento continuo che assomiglia più alle mosse di un combattimento che a una semplice fuga. Lo stile del film è ipnotico, sospeso tra la grana grossa dei filmati di archivio – pubblici e privati – e i pedinamenti, spesso notturni e illuminati da neon coloratissimi e iperrealisti, capace di combinare il vintage nostalgico della giovinezza e il nitore in formato panoramico, spesso riempito solo dalla protagonista, delle immagini più recenti. Ciao amore, vado a combattere è un sorprendente character study, un atto d’amore gratuito e per questo fragoroso verso una donna indomita, un inno alla rigenerazione di sé, attuata a costo di recidere radici e peregrinare in tre continenti cambiando pelle e abitudini, non permettendo che la vita, mai, decidesse al proprio posto. E nel vuoto malinconico della magnifica inquadratura finale, Manetti ci fa intuire con chiarezza, negli occhi illuminati e nel sorriso stanco di Chantal, il senso ultimo della fatica, dell’orgoglio di una vita in lotta, lontana da tutto e da tutti ma non estranea al mondo, alla ricerca di una consapevolezza capace di guarire corpo e anima che, mai come in questo caso, sono una cosa sola.