D’amore e d’odio: Fratello e sorella di Arnaud Desplechin

Un magnifico esercizio di cinema inverso. Una storia d’odio, come fosse amore. Arnaud Desplechin ci dice di guardare il dito per farci vedere la luna, ché Fratello e sorella (in Concorso a Cannes 75) è un melodramma in forma di rancore, inciso nel rapporto impari che disunisce Louis e Alice, fratello e sorella, Melvil Poupaud e Marion Cotillard: insegnante che ha trovato la fama lui, attrice teatrale di successo lei. La complessità dei sentimenti familiari è materia che il regista maneggia abitualmente, partendo come fanno un po’ tutti dalla base dell’unione, dall’amore, che infondo tiene insieme le persone, salvo poi far aprire crepe, lesioni e fratture. In Fratello e sorella, invece, Desplechin oppone ciò che le narrazioni vogliono in genere unito, assume il parti pris dell’odio e lo fa in misura abnorme, ingigantendo le dimensioni del rancore. La matrice è in sottrazione, il segno è negativo: all’odio corrisponde la morte, l’incipit è infatti all’insegna del lutto (la morte del figlio di Louis, il quale caccia malamente Alice dalla veglia funebre), mentre il setting narrativo è dato dal ricovero in ospedale degli anziani genitori dei due, travolti da un camion mentre erano sulla strada per partecipare alla prima di uno spettacolo di Alice, e a rischio di perdere la vita. Nel tempo sospeso di questo ricovero (e delle successive morti) Desplechin descrive l’istanza negata di una classica riunione di famiglia, la persistenza di un sentimento che sopravvive alla sua negazione.

 

 

 

La forzatura è evidente, ché nella logica comune l’odio pretende e attende il perdono, ma Louis e Alice sono narrazioni opposte, seguono vettori differenti. Perché? Semplicemente perché sono figure che dicono il contrario, rimuovono la verità del loro amore incestuoso nel suo opposto: l’odio. Il film è tutto un proliferare in eccesso, un superare i limiti della norma: ovvio che lasci schiantato lo spettatore, dal momento che descrive proprio l’eccedenza assoluta dei sentimenti, l’opposto toccarsi tra amore e odio, categorie indicibili nella norma della relazione parentale, non date come abituali: in una famiglia l’amore si dice affetto, l’odio si dice rancore… E’ evidente che in Fratello e sorella Arnaud Desplechin intende invece eccedere la narrazione comune delle emozioni, creare figure tragiche adattandole alla commedia dei sentimenti che abitualmente rappresenta nel suo cinema: Louis e Alice non hanno e non danno ragioni per il loro mastodontico odio, non lo narrano perché è indicibile. Cosa inaudita nel cinema di Desplechin, che invece nasce da una pratica dispendiosa del dire, da un magnifico eccesso del narrare “verboso” e “letterario”… In Fratello e sorella ogni richiesta di spiegazione è elusa, ogni incontro chiarificatore è rimosso. L’eccedenza dell’impossibilità di Alice e Louis di essere reciprocamente in scena si esprime addirittura nella perdita di coscienza di Alice: svenimenti che nella tradizione della pochade sono d’amore, qui sono d’odio. L’eccedenza, del resto, è letteralmente il segno visivo del film: Alice e Louis sono personaggi fuori misura rispetto al quadro, Desplechin sembra quasi non volerli contenere, li riprende in primi piani smarginati, contornati malamente, come se sfuggissero al suo controllo, proliferanti rispetto al suo stesso dire. Sarà che la linea del film è imposta dal Joyce di The Dead che Alice sta mettendo in scena, coi suoi personaggi che incedono nei loro sentimenti mentre ne eccedono la narrazione…