La prima volta che la vediamo, Frida è intenta a scorrere le pagine dei suoi social network, controlla il suo brand di disegno per unghie e, tra un video e l’altro, viene a sapere di Slater King, magnate tecnologico che si è comprato un’isola come buen retiro dopo aver fatto ammenda per i cattivi comportamenti del suo recente passato. La sua memoria è lì, fra quelle pagine girate con il dito, dove tutto si registra e tutto sparisce. La memoria, dopo tutto, è il punto nodale dell’intero progetto Blink Twice, che Zoe Kravitz ha scritto (insieme a E.T. Feigenbaum), diretto e co-prodotto. Così come lo è il passaggio di stato, quello che porta Frida da semplice hostess per una serata di gala – indetta proprio da King per celebrare uno dei suoi tanti brillanti risultati – a ospite nel lusso sull’isoletta privata del magnate, insieme ad altri amici conosciuti nella stessa sera e tutti inebriati dall’idea di passare un po’ di tempo nel verde, tra cibi esotici, piscine, cocktail e sostanze più o meno legali. Un posto fuori dal mondo e dal tempo (salvo qualche costruzione risalente a un passato perso nella memoria), in cui vivere un eterno presente nell’oblio di cosa è successo il giorno prima. Già, perché fra le sostanze che circolano ce n’è anche una che cancella la memoria…
Lo spunto, evidentemente, guarda a un recente filone del dislocamento di un personaggio altrimenti con i piedi ben piantati in terra in un contesto tra il favolistico e il perfettamente coreografato, come in Don’t Worry Darling o Scappa, tra la perenne sensazione latente di essere nel posto sbagliato e la voglia di godersi il momento di felicità che quell’Eden (per quanto fittizio possa essere) immancabilmente promette, preferibilmente ignorando i dettagli. La scelta sagace di Kravitz è quella dell’esperienza immersiva, che costruisce un ritmo perennemente sincopato, dove le situazioni si affastellano con ritmo da implacabile lancetta di orologio, in modo che il contesto sia sempre chiaro, ma i dettagli nella fretta un po’ si perdano. Come accade quando si è travolti dagli eventi, o quando il bombardamento sensoriale tipico dei nostri tempi ci porta a vivere tanti momenti insieme ma senza essere mai focalizzati su uno specifico: come lo sfogliare in fretta una pagina di un social network, insomma. In questo la neo regista dimostra di saperci fare, perché riesce a mantenere una tensione costante e il film funziona proprio quando asseconda il perenne stato di galleggiamento, tra felicità e divertimento esibiti e un certo nervosismo. La costruzione visiva gioca di rimpallo, a iniziare dal cast di attori “dimenticati”: Geena Davis, Christian Slater, l’Haley Joel Osment del Sesto Senso e quel Kyle MacLachlan che di mondi oscuri iscritti in quello reale con Lynch ne ha già raccontati tanti… Tutti sono sempre al centro delle inquadrature, stretti in primi piani che quasi ne deformano le fattezze, evidenti però annullati nella bolla. Sono figure che “parlano” con i loro corpi, chi è sovrappeso, chi esibisce la sue rughe, chi ha perso un dito, e tutti danzano attorno all’attrazione mai consumata fra i due attori più fisici, lo Slater King di Channing Tatum e la Frida di Naomi Ackie. Ma, allo stesso tempo, sono ospiti perennemente asessuati, mangiano, bevono, nuotano, ridono, ma non si baciano mai, associati a una vegetazione e una fauna esasperate nelle loro tinte forti, in modo da creare una vertigine fra la concretezza dell’esserci e l’alienazione di perdersi in un luogo alieno.
È qui che il valore della memoria contrapposto al passaggio di stato si combattono e creano la qualità drammaturgica, fino alle rivelazioni del terzo atto (e qui si entra in modalità SPOILER). Il momento in cui diventa chiaro che, no, quel passaggio di stato non è mai realmente avvenuto, e che la protagonista donna, nera e di bassa estrazione sociale non è ammessa in quel mondo se non nel più classico meccanismo di sopraffazione. Non è un caso se qui i personaggi ridiventano corpi, penetrabili, che sanguinano (l’epistassi è il momento in cui si recupera la memoria), che possono essere posseduti e aggrediti con lame e coltelli. Una dichiarazione chiaramente forte sui temi dell’inclusività e del #metoo tipici di tanta cinematografia recente, che la regista in quanto figlia d’arte deve aver imparato a conoscere bene. Inevitabilmente però il momento delle spiegazioni sottrae qualcosa alla forza d’urto del film, perché mette in scena collegamenti e dinamiche che devono risolvere l’intreccio in modo lineare, abbandonando la feconda confusione della prima parte in un ristabilirsi dei ruoli più netto, con linee di demarcazione molto chiare. Almeno fino all’interessante torsione finale in cui il conflitto tra i due estremi viene ribaltato, dimenticare diventa un’arma che può essere sfruttata a proprio vantaggio e il passaggio di stato getta una luce chiaroscurale su chi, nonostante il proprio ruolo di vittima, quel benessere lo vuole comunque mantenere. Dimenticare, in fondo, è davvero la chiave del successo. Sanguinolento e furbo, l’ending probabilmente ci dice più di quello che era realmente nelle intenzioni autoriali (il dubbio è che per la Kravitz il destino di Frida sia solo una sorta di “giusto risarcimento” nei confronti della società patriarcale), ma in ogni caso il velo di ambiguità resta un momento di confronto interessante.