Il finito e l’infinito, lo spazio concluso dell’atelier e quello libero della tela, la posa immobile del modello e l’irrefrenabile gesto del pittore: è una commedia degli opposti quella che propone Stanley Tucci in Final Portrait (in Concorso alla Berlinale 67), cronaca di un incompiuto annunciato: una quarantina circa di sedute che videro Alberto Giacometti alle prese col ritratto dello scrittore americano James Lord per un quadro che non troverà mai fine. Era la Parigi del 1964 e l’artista svizzero, ormai sessantenne, insisteva sul tratteggio granitico dei suoi ritratti in chiaro scuro: mentre cercava di concludere quello della sua amante Caroline, una prostituta, metteva mano al ritratto del biografo e critico d’arte americano James Lord. Tucci, che firma anche la sceneggiatura, gioca tutto sulla relazione biografica tra Lord e Giacometti, scandagliando le ragioni di un rapporto che vedeva l’americano sottoporsi al gioco infinito dell’artista. Il film insiste giustamente sulla performance di Geoffrey Rush, straordinariamente simile al vero Giacometti, e sul rapporto di simpatia che lo lega a Lord, in un dialogato che per fortuna non cerca la frase pesante, il grande momento, ma lavora più che altro sul fraseggio di una relazione che sta tutta nella libera sottomissione tra l’artista e il suo soggetto.
Con rare sortite esterne nella Parigi bohémienne, Final Portrait ruota più che altro nello spazio della casa di Giacometti, sul faccia a faccia tra lo spazio dell’atelier e quello domestico in cui la moglie dell’artista, Annette, cerca di gestire lo spirito inquieto del marito in fatto d’amore, tanto quanto il fratello Diego, anche lui artista e suo assistente, cerca di temperare i suoi accessi creativi. Il film ruota sull’asse delle sedute di James Lord, controcampo statuario all’arruffata presenza di Giacometti, in una cronologia che in realtà lavora prevalentemente sulla durata, sul tempo: quanto dura l’atto creativo di un artista che dice “più si lavora su un quadro, più diventa impossibile finirlo”?