«Nella mia ingenuità, per un certo periodo ho coltivato il sogno di diventare un montanaro. Ma ho dovuto fare i conti con la realtà, che è altra: sono un milanese innamorato della montagna, dove trascorro alcuni periodi dell’anno, a volte anche molto lunghi». Con queste parole, pronunciate presentando alla stampa il suo primo lungometraggio, Fiore mio, Paolo Cognetti ha messo in chiaro il proprio personale (e definitivo?) rapporto con la montagna in generale, e con quella valdostana in particolare. Non si tratta di un esordio assoluto in ambito cinematografico, dato che a qualche documentario Cognetti aveva collaborato in gioventù, dopo il diploma in Sceneggiatura alla Civica Scuola di Milano. Ma poi aveva «litigato con il cinema, una attività che mi sembrava dipendere troppo dai soldi, e mi sono dedicato alla letteratura, per fare la quale non c’è bisogno di avere tanti finanziamenti ». La riconciliazione con la Settima Arte è avvenuta «grazie alla bellissima esperienza sul set di Le otto montagne (trasposizione del suo romanzo, vincitore del Premio Strega 2017, realizzata dai registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeesch, ndr), per cui ho voluto riprovarci…ma il mio è un piccolo film, nulla a che vedere con quello… ». Quest’ultima è una mezza bugia, perché Cognetti è riuscito a convogliare intorno al progetto risorse economiche e umane importanti, tali da fargli assumere una dimensione produttiva di spessore, sulla quale ha pure celiato: « pensavo al massimo a una 500, mi hanno dato la Ferrari…».
Fiore mio ruota intorno al Monte Rosa, la montagna che è nel cuore di Cognetti, e che la gente del posto chiama semplicemente “glacier”, ghiacciaio. Il racconto è ambientato nell’estate 2022, quando lo scrittore si trova davanti all’esaurimento imprevisto della sorgente della sua casa a Estoul, piccolo borgo a 1700 metri di altezza, e decide allora di andare alla fonte, per capirne le ragioni. Un viaggio durante il quale farà tappa in tre diversi rifugi (Orestes Hütte, Mezzalama e Quintino Sella, dai 2625 ai 3585 metri di altezza), avendo come compagno di strada il suo cane Laki, a cui si aggiungono per brevi tratti amici, guide alpine, rifugisti. Ed è dagli incontri che, tra una camminata e un bicchiere di vino o di birra (versati senza parsimonia), nascono riflessioni sull’alta quota, sulla natura, sulla trasformazione dell’ambiente (alpino e non solo) e sul suo destino, sulle scelte di vita e sull’esistenza. Più domande, in verità, che non proposte di soluzione (e anche quelle poche pronunciate dagli interlocutori di Cognetti, non da lui), in aderenza all’idea che «l’arte proprio quello deve fare, senza invece la pretesa di offrire risposte, che ciascuno cercherà da sé». Tanto che la frase in exergo al film, divenuta pure lo slogan della campagna promozionale (« questo non è un film su come salvare le montagne, questo è un film su come le montagne potrebbero salvare noi»), suona un po’ pomposa e poco aderente al mood dell’opera. Che è sostanzialmente introspettiva, intima, sebbene non rifiuti aprioristicamente un respiro universale. Tra le cose più curiose – quasi un momento in cui il narratore aduso alla suggestione che vive in Cognetti fa capolino attivando la propria mirabile capacità di sintesi – c’è la storia di Laki, cane di un ragazzo del posto, che lo aveva preso come guardiano delle mucche; ma poiché all’animale in questione di interpretare quel ruolo non importava nulla, e preferiva anzi oziare (magari seguendo proprio lo scrittore nelle sue passeggiate in quota), era entrato nel mirino del suo padrone, che aveva preso a dire con insistenza che «il cane non lavora», sottintendendo rimedi drastici. Ed ecco allora che Cognetti, «sapendo come vanno a finire certe storie in montagna», l’ha preso con sé, contravvenendo al proposito di non avere animali domestici per non esserne limitato nei frequenti spostamenti. Una scelta di cui, dodici anni dopo, non si è affatto pentito; al punto da asserire: «è il mio maestro zen, mi ha insegnato il silenzio, la semplicità, l’onestà. Ed è anche il mio maestro di sentiero: con lui sono arrivato fino a 4000 metri…sono davvero pochi i cani, anche ben più giovani, che ce la fanno! ».
Come di fatto nei suoi libri, dove pure c’è quasi sempre un alter ego a marcare l’apparente distanza, Cognetti è centrale nel documentario che dirige. Ne è il motore, quantomeno, anche se poi lascia spazio ad altre voci, quasi uscendo dalle inquadrature e facendo in modo che siano coloro che egli incontra nel peregrinare intorno al Rosa (ovvero Remigio, Arturo, Marta, Sete, Mia, Corinne) a esprimere concetti più o meno forti e articolati, più o meno noti. Tra i contributi rilevanti al lavoro di Cognetti, c’è quello di Ruben Impens, già direttore della fotografia di Le otto montagne e di Titane (Palma d’Oro a Cannes nel 2021), che tuttavia non rende (volutamente) omogenee né la grana delle immagini né la luce, assecondando la (probabile) richiesta di Cognetti di trasmettere un’atmosfera il più naturale possibile, anche a costo di perdere qualcosa in qualità. Lo stesso approccio funziona assai meno con i dialoghi, che scontano in più passaggi un certo didascalismo e l’effetto straniante determinato dalla ricostruzione un anno dopo (le riprese sono della tarda primavera e dell’estate 2023), con gli stessi personaggi, che non sempre riescono a nascondere il disagio nel rivivere le situazioni passate, a beneficio di macchina da presa. Paiono invece perlopiù capziosi gli appunti, pure avanzati al film, circa errori o imprecisioni nel trattare la materia “montanara” (l’uso del verbo ‘sciogliersi’ invece che ‘fondere’ in relazione ai ghiacciai; la presenza di girini a quote assai improbabili per loro; lo scetticismo in ordine alla tenuta, ad altitudini importanti, di un cane anziano come Laki, condizione che lo stesso Cognetti si limita peraltro a constatare con stupore), perché anche se fossero tali, sono comunque veniali, e il cinema non ha certo l’obbligo della puntualità. Decisamente centrata la colonna sonora impressionista di Vasco Brondi, già leader del progetto Le Luci della Centrale Elettrica: un debutto riuscito quello del cantautore (con Federico Dragogna dei Ministri impegnato come produttore), che ha preso dichiaratamente ispirazione dall’Eddie Vedder che musicò Into the Wild di Sean Penn, con una trama sonora forse più lieve e sospesa, ma penetrante, capace di arrivare sottopelle. Oltre alle musiche originali, è sua anche la canzone che accompagna i titoli di coda, Ascoltare gli alberi, mentre il brano del 2017 che presta il titolo al film (e che pure vi compare, nella parte finale) è opera del cantautore e compositore torinese Andrea Laszlo De Simone, che proprio quest’anno ha vinto (primo italiano nella storia) il Premio César per il commento sonoro di The Animal Kingdom di Thomas Cailley.