Yoav cade su Parigi come un corpo estraneo. La distanza che lo separa da Israele corrisponde allo spazio che c’è tra se stesso e il bisogno di rigettare tutto quello che è: la sua terra, la lingua, la famiglia, l’esercito per cui ha servito. Yoav, che è il protagonista di Synonyms di Nadav Lapid (in Concorso alla Berlinale 69), in qualche modo cerca un sinonimo che dica di lui ciò che lui stesso non sa più dire, un fraseggio identitario verbalizzato nel suo francese letterario e arrotolato nelle sonorità che poggiano sulla sua lingua madre. Yoav è una specie di Candido caduto in quello che crede il migliore dei mondi possibili, la Francia, da quella che sente essere la peggiore delle patrie possibili, Israele. Fuggito dall’assedio perenne su cui si basa l’identità israeliana, si ritrova nudo a Parigi, senza confini, gettato in una casa vuota, aiutato da Emile e Caroline, un giovane scrittore di ricca famiglia e la sua compagna musicista, che lo vestono come Marlon Brando nell’ultimo tango: un cappotto color cammello sulle spalle per attraversare le strade di una città estranea, dimentico della sua storia al fine di scrivere per sé una nuova storia. Yoav, del resto, è un come fosse il sinonimo di Nadav Lapid, che al suo terzo film (dopo Policeman e The Kindergarten Teacher) racconta sostanzialmente se stesso prima di conoscere il cinema, quando “seguendo una voce che veniva dal nulla, come Giovanna d’Arco o il patriarca Abramo” capì che doveva salvare se stesso “da un destino israeliano” e approdò a Parigi.
Scritto con la straziante incongruenza di un rifiuto che corteggia l’accettazione, Synonyms coincide esattemente col suo protagonista, mimetico nella scrittura rispetto alla frenetica purezza di Yoav, scollato da ogni possibile significato della realtà che non stia nella libertà un po’ infantile dell’espressione. Il punto di fuga politico, il rigetto identitario di tutto ciò che significa essere israeliani, si pone per Yoav, e dunque per Nadav Lapid, come origine di un discorso che poi diventa barthesianamente amoroso, proprio perché ha a che fare con la solitudine del dire se stessi, con la collocazione della parola nella realtà, di fronte all’amato. La parola in Synonyms è il corpo stesso del film, occupa Yoav e la sua dispersione nello spazio di una città nella quale cerca ineffabilmente di dire se stesso. Il suo corpo, spesso messo a nudo, è la condizione di una storia che lo trascende nelle derive quasi surreali che intraprende: scorci di lavoro in ambasciata per la sicurezza, un sedicente artista che lo paga per pose sempre più pornografiche, l’innamoramento di Emile al quale regala le sue storie, il matrimonio con Camille e il surreale corso d’integrazione culturale per ottenere i documenti…Il rifiuto e l’accettazione dialogano nella storia di Yoav come lo scontro e la fuga di fronte ad Achille nella storia di Ettore che il padre non ha mai voluto finire di leggergli: spettri di un rapporto di forza con l’altro da sé, nel quale Yoav finisce per ritrovarsi prigioniero. Attraversato da un furore nouvelle vague, che risulta non tanto di matrice banalmente cinefila quanto funzionale a una infanzia del dire filmico libertario, Synonyms ha una forza interiore che spiazza e coinvolge. E soprattutto trova nell’esordiente assoluto Tom Mercier l’incarnazione stessa del film , una presenza totalmente straniata e straniante difficilmente dimenticabile.