Il cinema digitale e lo strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria: in fondo è tutta lì la scoperta dell’altrove da parte di Guy, prigioniero del suo personalissimo Truman Show videoludico. Le sue giornate si ripetono sempre uguali, in quanto PNG (Personaggio Non Giocante) di Free City, un regno virtuale della Soonami Games in cui è contemporaneamente sfondo e carne da cannone per le pistolettate dei player. Almeno fino al giorno in cui non arriva il qualcosa che gli fa acquisire coscienza, il fischio del treno o la scoperta della luna o, come in questo caso, l’amore per la tosta giocatrice Millie. Basta poco per marcare il passaggio di stato: un paio di occhiali alla Essi vivono e The Blues Brothers per reimparare a vedere il mondo e magari diventare la persona giusta che permetterà alla stessa Millie di ritrovare, nascosto alla fine del mondo (virtuale), il seme originario di Life Itself, il gioco da lei programmato e che il perfido Antwan, proprietario di Soonami Games, ha rubato per creare Free City. Molti gli elementi in campo, dunque, ma riconducibili a schemi ben consolidati. Il che già basta a considerare quanto un cinema che spinge a fondo il pedale dell’astrazione, sia in realtà magnificamente classico. Così, accanto a una scena dominante in cui il digitale è spesso mero strumento per creare fittizie (e non direttamente distinguibili) repliche del nostro mondo, c’è un cinema che insiste altrove e punta all’astrazione, alla comprensione di come il tool virtuale apra le porte di mondi con regole proprie. Non siamo, insomma, nei cinecomic in cui gli eroi, pur nella cifra fantastica delle loro imprese, restano sempre molto grounded e a caccia della verosimiglianza, ma ci avviciniamo invece ai mondi di Avatar o Ready Player One. Paragone, quest’ultimo, particolarmente calzante poiché Free Guy ne riprende il geniale co-sceneggiatore Zak Penn e la logica antisistema dei programmatori indipendenti in lotta contro il colosso che intende monetizzare lo spazio condiviso della Rete.
Complice la regia più professionale di Shawn Levy – meno radicale di un Cameron o uno Spielberg, ma comunque a suo agio con la creazione di micromondi, si pensi alle Notti al museo o a Real Steel – il viaggio di Guy staziona così a metà fra l’applicazione sfrenata dei pixel e le interazioni più classiche della commedia romantica. Ché il viaggio del novello eroe è infatti tanto un lungo rituale di corteggiamento verso la figura amata, quanto una corsa a rotta di collo fra spazi che si disintegrano e ridisegnano, corpi che variano, elementi che affollano lo schermo e un continuo andirivieni tra il dentro e il fuori. Ovvero tra uno spazio virtuale che però, nel continuo affollamento di possibilità, resta comunque concreto e individuabile, un po’ come la generica divisa da “camiciola azzurra” del protagonista che diventa un segno identitario forte; e poi un mondo reale che invece è diviso fra spazi di discussione frammentati nelle varie derive del log (chat, live stream, videoconferenze) e dell’intero apparato mass-mediale (telegiornali, talk show) e in cui l’espressione del sé è condizionata da molte variabili. Per questo la presa di coscienza di Guy, trova un contraltare nelle azioni “nascoste” di Keys, il co-programmatore di Life Itself, che lavora per Antwan, ma agisce nell’ombra per aiutare l’amica Millie, che delega alle sue idee virtuali i messaggi che intende inviare alla donna e di fatto è una presenza centrale, ma scentrata, un demiurgo ombra costretto a passare per ciò che non è.
Il viaggio nel mondo virtuale diventa così la presa di coscienza di un cinema che si interroga sulle sue possibilità espressive, cede forse un po’ quando il citazionismo diventa troppo esplicito – i rimandi a Marvel e Star Wars, quasi a ribadire come in fondo a tirare le fila ci sia pur sempre la Disney, qui rispecchiata dalla mobilità schizzata ma pur sempre ben integrata di Taika Waititi – ma affronta comunque la tematica con intelligenza e divertimento. E trova il suo punto di equilibrio in un Ryan Reynolds ormai consolidato nel ruolo dell’ingranaggio fuori posto e che proprio per questo apre nuove possibilità alle coordinate della narrazione dentro e fuori i meccanismi conosciuti, risultando una volta di più tanto un corpo blockbuster quanto una figura abbastanza lontana dagli schemi.