Sta tutto nel titolo il mistero di questo film. The Imitation Game, il quarto lungometraggio del pluripremiato norvegese Morten Tyldum, si dipana attraverso una quasi infinita serie di specchi, dentro i quali, però, non tutto si riesce a vedere/sapere.
L’inventore della macchina che ha decifrato il codice Enigma, ideato dai nazisti per comunicare le operazioni militari, è, in realtà, egli stesso un enigma, un segreto che tutti e tutto hanno contribuito a mantenere, e la sua creatura, lentamente, si trasforma nella personificazione dei molti tabù che aleggiano nell’aria. Al centro della vicenda sta Alan Touring, matematico ed esperto in crittografia, ma anche genio incompreso, scostante, silenzioso, allergico alle convenzioni sociali, ma terribilmente sensibile, quindi a disagio in un ambiente che, al contrario, è regolato da rigidi schemi di comportamento. Ingaggiato dai servizi segreti inglesi per “vincere la guerra”, Touring costruisce la sua macchina delle meraviglie ed in essa ci si specchia, come fosse quell’alter ego necessario a sconfiggere la solitudine. Perché il merito più grande di questo film imperfetto, è lo sguardo fisso conficcato nel cupo dei pensieri del protagonista, senza, tuttavia, voler davvero scalfire quel nero. La storia di un uomo raccontata in un geometrico andirivieni tra diversi piani temporali, che si innestano nel presente in modo solo apparentemente casuale. Gli anni di studio e quelli disperati, passati a sconfiggere Enigma (e, al contempo, a combattere contro la sfiducia dei suoi superiori) rappresentano la superficiale spiegazione di un presente che non ha prove e si lascia ingannare dai pregiudizi. Da qui l’amaro finale della storia, che si compie nel modo più convenzionale possibile, seguendo le “regole” non scritte di ogni biopic.
Il meccanismo del racconto e del film stesso, procede dall’ossessione della scoperta all’ossessione della segretezza. Svelare e occultare, portare alla luce e dimenticare. Si crea e si distrugge sempre qualcosa, in ogni immagine, in ogni dialogo, nelle relazioni personali, nelle scoperte scientifiche, nelle strategie di guerra, nella vita dei personaggi. Come a dire che il mistero è parte dell’animo umano e i segreti in esso schiacciati sono il nemico più invincibile. Nel gioco di rimandi tra parole e immagini (ma anche segni e significati) di cui questo film è osservatore incantato, c’è anche quello della costruzione di un dispositivo che travalica se stesso, appunto, e fin da subito si trasforma in qualcos’altro per ognuno dei ricercatori coinvolti nell’impresa. Ed è bene e male al tempo stesso, senza alcuna possibilità di cambiare i destini dei singoli individi.
Sceneggiatura perfetta, che batte il tempo, lo rincorre e lo preannuncia nella veloce brillantezza dei dialoghi. Quasi un thriller travestito da spy-story, con un coté profondo, intimista ed esistenziale. Ingredienti dosati con sapienza, se non fosse che visivamente tutto si traduce in una semplice trasposizione, a tratti stanca, a tratti statica e poco vibrante, fatta eccezione per il gioco ad incastro dei primi piani, che si succedono e si rincorrono, fino alla fine.