Un horror. Un film spietato e urtante. L’osservazione del doppio fondo di un’abitazione e dei personaggi, ovvero una famiglia, che vi risiedono. L’immobilità dei volti e dei corpi, e l’immobilità delle menti, e delle stanze, quelle quotidianamente e ritualmente frequentate dal padre padrone, dalla moglie, dai figli e dalle figlie, e quelle che la macchina da presa va a scoprire dietro una porta chiusa o nascoste negli anfratti della cantina. Una casa nera. Una vita sigillata, autoreferenziale, che sembra inscalfibile, ovattata e sospesa in un tempo e uno spazio a loro volta sospesi in un limbo, una terra di nessuno tra la fine di una dittatura e gli anni immediatamente successivi, ancora tremendamente violenti come lo sono i colpi di coda di un regime e le devastanti azioni crudeli compiute da chi si vede espropriato del potere eppure ben deciso a perpetrare gli orrori. L’opera in questione è Il clan del cineasta argentino Pablo Trapero. Il periodo, i primi anni Ottanta del Novecento, dal 1982 al 1985, nell’Argentina che stava uscendo dalla dittatura militare di Videla (sulla condanna del generale rimane memorabile una frase pronunciata da Cecilia Roth, nel ruolo dell’argentina Manuela, in Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar: “Oggi è un gran giorno: in carcere il dittatore Videla e nasce tuo figlio”; e il regista madrileno è fra i produttori de Il clan, creando una sorta di traccia intima tra due testi così formalmente distanti…). Ma il “gran giorno” annunciato e auspicato era ancora lontano dal realizzarsi. Nel quartiere San Isidro di Buenos Aires viveva, organizzava e attuava i suoi piani criminali Arquímedes Puccio, ben inserito negli ambienti militari e coperto da loro esponenti (ma anche da loro denunciato nel momento in cui le cose precipitarono per quei resti di regime). Era il capo di una banda che operava sequestri di persone benestanti e che, dopo avere ricevuto il denaro, le uccideva, ed era il patriarca che coinvolse la famiglia nei suoi atti, soggiogandola con il suo carisma (e che comunque non si oppose per non rinunciare al buon tenore di vita raggiunto con le ingenti somme dei pagamenti dei riscatti).
Attorno a questi fatti, privati e pubblici, familiari e storici, Trapero (che non è solo l’autore di Mondo Grua e Familia rodante, ma anche del meraviglioso e dimenticato Leonera, intensa storia d’amore girata in un vero carcere con protagonista una donna incinta interpretata da Martina Gusmán, moglie del regista e realmente in attesa di un bambino durante le riprese) costruisce un film di alta consistenza formale e politica, nel senso della necessità di non dimenticare, che dal particolare, e dai dettagli, si apre all’universale. Un film dominato dal buio, dalla paura, dai silenzi più che dalle urla, come se fossimo in una notte espansa in immagini dai rintocchi non solo horror ma anche gangster, noir, polizieschi, rintocchi di un’inquietudine che è anch’essa il doppio fondo della falsa tranquillità esibita in quell’interno di famiglia borghese. In tale contesto assumono rilevanza sia le piccole cose sia le variazioni stilistiche adottate da Trapero per frantumare la superficie tanto degli ambienti quanto dei visi. Tutta la certezza criminale di Arquímedes (che non confessò mai le proprie responsabilità) sfuma in quel difetto, in quel fastidio che lo colpisce agli occhi, un rossore, un’infiammazione che Trapero sottolinea fin dalle prime inquadrature con il boss seduto in auto (da lì il testo retrocederà di qualche anno, avanzando poi linearmente ma non del tutto perché la retata della polizia in casa Puccio nel 1985 viene già annunciata da alcuni flash). La disperazione del figlio Alejandro alla notizia della morte dell’amico e compagno di squadra di rugby (che lui aveva contribuito a rapire, ma non a eliminare) o lo scontro verbale violento tra padre e figlio assumono una dimensione amplificata, mai ab-usata, dal ricorso a specchi portatori di una moltiplicazione della vertigine e dell’abisso fisico e mentale. Trapero si concentra sulla ripetizione dei gesti; tralascia quello che non è essenziale a quell’unità spazio-temporale (il viaggio di Alejandro in Nuova Zelanda alla ricerca del fratello Maguila è consegnato a un’ellisse totale, al batter d’occhio di uno stacco di montaggio che unisce la scena in cui si parla della partenza e quella successiva che già accoglie il ritorno dei fratelli all’aeroporto); spinge fino alla sfocatura estrema il flou che domina alcune inquadrature, fino a farlo evaporare nella dissolvenza, fino a farlo diventare dissolvenza; crea detour musicali inserendo, proprio come facevano i torturatori, in molte scene brani occidentali leggeri in contrasto con le situazioni rappresentate; nella parte finale in tribunale filma il tentato suicidio di Alejandro – che improvvisamente sale su una balconata e si getta sull’ingresso da un’altezza considerevole sperando di trovare nella morte l’unica possibilità di fuga da quella molteplice prigionia (ma si salverà) – non solo con un esemplare senso del ritmo e del colpo di scena ma creando un’apnea e un disagio ancora una volta psico-fisici. Nel segno di una indelebile tradizione filmica di salti nel vuoto, dove in questo caso il contatto, fosse anche solo subliminale, è con L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, capolavoro del cinema ancora oggi indigeribile in tutta la sua potenza disturbante, e claustrofobica, tragica come ne Il clan, e con lo slancio definitivo oltre una barriera, sia essa una balconata o una finestra.