Più utile che riuscito. La seconda volta dietro la macchina da presa per Pif è un film che non ha il coraggio di intraprendere una strada tutta sua (come avvenne per La mafia uccide solo d’estate) e chiede aiuto alla tradizione della commedia italiana. Anzi, si appoggia letteralmente al genere cercando rassicurazione e ispirazione, ma con il risultato che In guerra per amore scorre con poca fluidità, spesso bloccato dal peso dei riferimenti. Questo non vuol dire che si tratti di un’opera non riuscita, anzi, la storia è avvincente e i personaggi dipinti nella loro complessità di figure preziose per il fine educativo e edificante. Arturo, che ama la nipote di un boss della mafia newyorkese, si arruola per poter andare in Sicilia a chiedere la mano dell’amata al vecchio padre di lei. Una volta in Sicilia, però, si trova di fronte ad una necessità di crescita e di partecipazione attiva alla guerra di Liberazione, in cui è stato quasi involontariamente coinvolto. E così i suoi gesti cambiano, il suo sguardo si fa consapevole e l’amore per Flora si amplia in un amore di giustizia che dovrà forzatamente cambiare la sua vita. Perché si stanno ponendo le basi per il trionfo della mafia su questa terra e si assiste a scenari di liberazione come meccanismi sordi, che spezzano gli equilibri per sempre. Si scopre che il patto Stato–Mafia nasce qui, nel potere dato ai capimafia, indeboliti dal precedente regime fascista, perché non contrastino il passaggio verso nord delle truppe americane. Un film politico, dunque, anche se vestito con abiti di leggera spensieratezza, che sembra giocare una partita a scacchi con le diverse pedine in campo, tra soldati americani, gerarchi fascisti, piccoli boss locali, sgherri poco intraprendenti e la gente del paese, affamata dalla guerra e abituata a ogni tipo di espediente, tra dramma e commedia. Come dire che lo strapotere mafioso in Sicilia è frutto di una sbagliata valutazione (o di un preciso disegno anticomunista) delle forze coinvolte e dei problemi sepolti appena sotto la sabbia.
Per la seconda volta Pif ci parla del presente ricorrendo ad una sorta di leggenda ambientata nel passato. Crea un’allegoria efficare e popolare, una commedia di facile presa, edulcorata e, spesso, semplificata al punto da svuotarla di senso. Non si sente il peso della guerra in questo paese inventato in cui è racchiusa tutta la Sicilia, la bellezza del paesaggio è quasi commovente e la vibrante simpatia del personaggi completano la favola bambina di una storia difficile da riconoscere nelle sue ombre, nei chiaroscuri, nella profondità di cause e conseguenze che non smettono di affiorare. Di questa malinconica e sfuggente realtà non c’è traccia nello sguardo di Pif, e si ha l’impressione che la faciloneria del simpatico personaggio di Arturo Giammarresi abbia condizionato l’intero film, al punto da esagerare certi stereotipi, i siparietti comici che trasformato tutto in una situazione irreale, la solita favola senza corpo e senza rovescio, che non sa arrivare con piglio deciso al finale, invece intenso e finalmente sfumato sui molti e problematici livelli sinora solo esposti. Un universo simbolico cui manca austerità e tragedia (pur nel registro della commedia), un affresco che non sa gestire la coralità e la prospettiva. Verrebbe voglia di capovolgere il film, iniziare dal finale, dalla panchina davanti alla Casa Bianca, dove Arturo aspetta di essere convocato, per dire la verità sulla liberazione alleata in Sicilia, o dal grottesco discorso finale del nuovo sndaco di Crisafullo, Don Calò, che ghermisce la folla e dice: “Voi avete bisogno di noi, noi siamo la democrazia”.