Don Diego de Zama aspetta. Lui, ufficiale della Corona spagnola ma nato in una qualche città latinoamericana, vuole solo abbandonare l’afosa costa coloniale dove è costretto per fare ritorno a casa. Le richieste di trasferimento al Re si susseguono così come i dinieghi in risposta: immobile, Zama vede cambiare governatori e viaggiatori mentre il suo desiderio unico e primario resta inascoltato. Il suo tempo si impiega nella zelante adesione alle regole, nella speranza che la sua dedizione rompa l’empasse, scardini l’incastro che è diventato la sua vita. La prima parte di Zama (Fuori concorso), ritorno al cinema di Lucrecia Martel a nove anni dal precente La mujer sin cabeza), mette in fila le incombenze di un uomo inasprito dalla propria insoddisfazione, descrive le umiliazioni date e subite, costruisce un mondo coloniale (siamo in un indefinito XVII secolo) stanco, pigro, indolente, ripetitivo e asfittico. Zama spia le donne del luogo lavarsi e poi, scoperto, le schiaffeggia; riceve ospiti e si occupa di cavilli e questioni legali con la stessa inerzia sfatta. Il caldo tropicale appiccica i vestiti e sfianca gli ardori, il sudore e l’umidità (che sembrano uscire dallo schermo grazie alla splendida fotografia del portoghese Rui Poças, già collaboratore di Miguel Gomes) ovattano l’azione privilegiando una sorta di stasi reiterata che raddoppia i continui fallimenti del protagonista.
Ma quando Zama, per esasperazione, decide di mettersi in moto alla ricerca di ipotetici e misteriosi criminali nascosti nella giungla, i colori cambiano, le inquadrature si aprono e il protagonista sembra sciogliersi nell’ambiente, essere minuscolo immerso nel creato. Martel mescola suggestioni che vanno al di là della matrice letteraria del film (che è tratto da un romanzo dell’argentino Antonio di Benedetto, pubblicato nel 1957), ricorda a momenti il cinema di Raul Ruiz e in altre le bizzarrie storiche di Albert Serra, tralascia il ritmo narrativo per seguire una limacciosa fluidità di racconto, rende tangibile un sentimento fallimentare attraverso poche e precise pennellate di ironia. Zama racconta la storia di un uomo senza qualità che sogna un futuro diverso per annullare il presente, incapace all’adattamento quanto inadatto alla ribellione. Il ruolo maschile – di potere e di comando – che incarna sembra inflaccidirsi per la stasi e i confronti con il genere femminile sono segnati da un perenne rischio di umiliazione. Il racconto è quello di un uomo che è incapace di accettare il mistero di una vita vissuta in perenne discronia: Martel lo segue fluida e pacata, immergendo lo spettatore in un’esperienza quasi ipnotica, in cui il suono della natura (grilli, cicale, vento, acqua, onde) piano piano sovrasta e annulla quello dell’umano. Uomo, storia, natura: in fondo Zama è l’anamnesi del rapporto tra il protagonista, il suo tempo (quello storico e quello personale, che non sempre coincidono) e la natura che abita suo malgrado e che si rifiuta di guardare. Don Diego è costretto in una Fortezza Bastiani tropicale, testimone di un tempo che gli passa accanto, lasciandolo lì, sempre più privo di forze e ambizioni, a far scorrere la vita come fosse un fiume tortuoso e lento.