La prima immagine è di quelle che segnano l’intero film: il primissimo piano sul volto velato della protagonista mentre vengono celebrate le sue nozze. Tutto il resto è escluso dallo sguardo, non tanto per alludere al fuori campo, quanto per cancellarlo con perentoria scelta, che già molto dice del progetto di William Oldroyd per il suo film d’esordio, Lady Macbeth. Nell’Inghilterra del 1865 la diciassettenne Katherine è costretta al matrimonio con un uomo ricco, proprietario di miniere di carbone nel nord-est dell’Inghilterra. Soffocata dalle rigide norme sociali dell’epoca, dal suocero-padrone che la tratta come un oggetto e dal marito che la umilia e la ignora, inizia una relazione clandestina con il giovane stalliere, ma il tormento amoroso la spinge a cambiare ogni cosa e a ricorrere alla violenza pur di non soccombere. Oldroyd, già apprezzato regista del teatro inglese, si ispira al romanzo di Nikolaj Leskov Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk del 1865, che Sostakovich nel 1934 ha trasformato in opera lirica (bandita due anni dopo da Stalin a causa del suo contenuto scandaloso), e Wajda in film nel 1962 (il titolo era Siberian Lady Macbeth). Una storia semplice, a tratti prevedibile, se non fosse per le sfumature e i cortocircuiti che si innescano nel contrasto tra la staticità esasperata dei corpi, la frontalità ostentata delle inquadrature e il fuoco delle passioni tra i personaggi, a partire proprio dalla giovane Katherine, donna moderna e caparbia, crudele e ingenua al tempo stesso, dotata di una profonda ricchezza psicologica, eppure imprigionata in un palazzo da cui non può fuggire e dentro inquadrature che ne delimitano la fisicità. Il contrasto più acceso, tuttavia, lo crea il montaggio con il suo continuo ricorso al jump-cut, capace di creare un ritmo irreale e violento e di trattenere ogni emozione, oltre che lo scorrere del tempo. I gesti si ripetono senza influire sulla percezione della durata, come se la casa (che non si vede mai dall’esterno) e il paesaggio (fatto di vento, nuvole e campagna) fossero cristallizzati e immobili, ma paradossale teatro di una passione vitale e mortale.
Nel mondo vittoriano, austero e freddo, Oldroyd sceglie di rappresentare il sesso come ossessione viscerale, ma anche spiraglio aperto verso la libertà. E lo fa mettendo prima in evidenza i dettagli del cambiamento, in quella sorta di eccentrica lotta di classe che si consuma tra le mura di casa, tra donne/serve, tutte prigioniere e tutte usate come vittime e carnefici. In questo microcosmo soffocante, però, libertà non significa fuga, bensì si traduce nella volontà fatale di radicarsi in quegli stessi luoghi, nella vendetta e nell’iterazione di identici atteggiamenti. Un braccio di ferro estenuante e infinito tra Katherine e tutti gli altri, per ristabilire l’ordine originario e/o sovvertire le regole. Un film dove dominano il silenzio e i colori freddi del nord, fisico e cerebrale al tempo stesso, antico e moderno nella scrittura e nella collocazione spaziale dei corpi. Un conflitto che nasce con la caratterizzazione stessa della protagonista, eroina irriverente tutt’altro che passiva, coraggiosa e scorretta, capace di rivoltarsi contro il soffocante dominio patriarcale. “Non mi stupisce che Stalin avesse bandito l’opera lirica, perché trovava il personaggio letterario oltraggioso”, spiega Oldroyd, che ha fatto tesoro di tanta ribellione letteraria, per usarla come lama affilata.