L’idea di incarnare la Storia, di trovarla nelle rughe delle figure, nella voce rauca dei discorsi, nel realismo degli scenari fa parte del dispendio immaginifico dello storicismo cinematografico. Se poi il gioco è di marca britannica assume livelli virtuosistici, che oscillano tra il realismo plastico frearsiano e la narrazione epigrafica di film come Il discorso del re di Tom Hooper o questo L’ora più buia di Joe Wright. La capacità più invidiabile è quella di comporre ritratti di grandi personalità ottenendo in trasparenza affreschi di epoche e momenti cruciali per il paese. In genere a ciò si unisce la formidabile abilità degli interpreti di dare corpo a quelle figure senza incedere nel bozzettismo da museo delle cere, come nel caso specifico dimostra Gary Oldman alle prese con Winston Churchill. Si tratta di andare al di là del mimetismo fisiognomico per trovare la chiave d’accesso caratteriale in grado di trasformare la figura in persona, così come la ricostruzione degli eventi trova la capacità di superare la rievocazione per toccare lo spirito dei tempi. Il tutto confluisce in una forma di bassa epicità alla quale è facile aderire simpateticamente, abbassando consapevolmente la soglia dell’attenzione critica. È un po’ l’effetto che ottiene Wright in L’ora più buia facendosi carico di raccontare l’altra sponda di Dunkirk, quella sul versante britannico occupato dal difficile compito di Winston Churchill di evitare la prospettiva (che storicamente sarebbe stata catastrofica) di scendere a patti con la Germania di Hitler.
Il ritratto buffo del burbero primo ministro inglese occupa la scena con enfasi caratteriale classica, ma il flusso di coscienza storica che governa la messa in scena lavora adeguatamente di sponda tra le retrovie del sistema politico britannico (il parlamento annichilito, la scarsa considerazione di Churchill da parte del suo stesso partito), le stanze regali in cui il primo ministro era malvisto e la realtà quotidiana della gente, incarnata nella presenza della segretaria con fratello al fronte, presente nelle stanze del potere. Mentre la sceneggiatura di Anthony McCarten (La teoria del tutto) organizza la scena seguendo queste direttive, la regia di Joe Wright lavora seguendo linee che alternano prospettive verticali e orizzontali, in un gioco che tiene insieme la perpendicolare del potere e l’orizzonte della realtà quotidiana. Il film insiste infatti sulla linea dinamica alto/basso sin dalla prima inquadratura in parlamento, in un gioco che materializza il timore d’invasione, esattamente come trova la ragione del coraggio di Churchill nell’orizzontalità del suo attraversare le strade, scendere in metropolitana e incontrare il popolo.