È una storia di vendetta quella raccontata da Gabriele Mainetti ne La città proibita, con la giovane cinese Mei che, a Roma, cerca la sorella per poi diventare l’inesorabile sterminatrice dei suoi assassini. Ma è anche il nuovo capitolo di questa lunga ricerca di personaggi incompleti e del loro confronto con l’inevitabile controparte, che in questo caso è rappresentata da Marcello (Enrico Borello), cuoco di una trattoria su Piazza Vittorio rimasto senza il padre (il cui destino, senza scendere troppo in dettagli, si lega a doppio filo proprio alla sorella di Mei). In mezzo ci sono le forme del gongfu movie applicate alla romanità, in cui un’articolata scena d’azione in bordelli e ristoranti cinesi trascolora senza soluzione di continuità nei vicoli della capitale, mentre italiani e asiatici si spartiscono il controllo della piccola criminalità locale e del territorio. Riempire i vuoti diventa così la traccia su cui Mainetti costruisce i suoi personaggi, tutti caratterizzati da una mancanza: che non è solo quella parentale, come nel caso dei due protagonisti, ma anche di un mondo in cui inserirsi. Lei, costretta fin dall’infanzia a nascondersi nella madrepatria per la legge cinese sul controllo delle nascite, non ha mai realmente visto l’esterno. Lui è pure prigioniero di quella cucina in cui mastica la frustrazione di una famiglia irrisolta.
Lei per questo aggredisce il mondo con calci, pugni e ogni possibile utensile che il coreografo delle scene di lotta Trayan Milenov Troy le fa reinventare con straordinaria creatività e plausibile realismo – ogni colpo è studiato per colpire efficacemente i punti deboli dell’avversario, donando una forte sensazione di credibilità al corpo a corpo. Marcello, al contrario, è debole e indeciso nel modo di porsi davanti al prossimo. Il dualismo tra forza esteriore e debolezza interiore è applicato anche agli altri comprimari, dalla madre Lorena (Sabrina Ferilli) al padrino Annibale (Marco Giallini), fino al boss Wang (Shanshan Chunyu) e diventa il punto prospettico ideale verso una realtà che si confronta con la chiusura/apertura alla contaminazione sociale e culturale. La location già citata di Piazza Vittorio, centro multietnico della capitale, non è casuale e ribadisce come la posta in gioco stia tra una chiusura all’inserimento dell’altro (incarnata dal conservatorismo protezionista di Annibale, ma anche dalla brama di dominio di Wang) rispetto a un’apertura che è quella del mercato in cui scambiarsi i beni o della scena hip pop in cui un giovane rapper cinese può cantare la realtà di fronte a un pubblico di ragazzi sino-italiani. Un mondo “di fuori” insomma, che Mainetti segue con curiosità un po’ felliniana (ricordiamo Roma), contrapposto a quello “di dentro” dei ristoranti che “non sono nemmeno reali” perché reificano una realtà ideale, fuori dal tempo e non più incastonata nella verità delle cose. L’equilibrio trovato attraverso le mancanze dei personaggi, va da sé, diventa propedeutico a meglio comprendere l’operazione stessa di questo “Kung fu all’amatriciana” (come recitava il titolo di lavorazione del film), apparentemente distante dai supereroi in salsa manga di Lo chiamavano Jeeg Robot o dagli artisti circensi con differenti abilità di Freaks Out.
Perché ancora una volta è questione di abbracciare una cultura altra per farla propria, come il film di arti marziali, tipico di differenti latitudini e cinematografie, nonostante gli isolati tentativi italiani degli anni Settanta come Il mio nome è Shangai Joe – non a caso un western, fra i generi più sperimentali della nostra tradizione. Trovare l’equilibrio fra l’espressione più autentica della romanità e le coordinate del cinema marziale diventa così un lavoro di cesello, cercando i vuoti da riempire. Uno sforzo articolato sui cromatismi della fotografia di Paolo Carnera (che già aveva fatto molto a proposito con Sollima e qui perfeziona un modello estetico capace di ritagliare mondi con un’abilità degna di un Luciano Tovoli con Dario Argento) o su location ricercate con attenzione (la fabbrica di mattoni e i salti sui tetti che richiamano un certo mood da cinema hongkonghese). Da lì si parte per illustrare l’azione e il balletto dei sentimenti che dividono e avvicinano i personaggi. Mainetti lo fa con sincerità partecipe, dimostrando conoscenza della materia e senza cadere nell’inerte citazionismo passatista (“Bruce Lee è morto 50 anni fa”, dice non a caso uno dei personaggi), che è poi il modo migliore per raccontare un cinema che stia nella contemporaneità. In questo senso è illuminante la scelta attoriale di Yaxi Liu, già stuntwoman in produzioni hollywoodiane come Mulan: ovvero un film molto attento all’esteriorità e ai paesaggi della forma wuxia, con un cast di leggende del genere, rimasto però impermeabile a qualsiasi identità in grado di renderlo autentico. Una questione di saper colmare le assenze per dare forma a un risultato che non sia soltanto in equilibrio produttivo, ma che rappresenti anche qualcosa di vivo. Cosa che a Mainetti, lo si riconosce con un certo orgoglio, riesce egregiamente.
Le immagini sono di © Andrea Pirrello.