Una porta si apre. Una folla di persone anonime in coda entra nell’edificio, un banco dei pegni. Quella stessa porta si chiude, l’ambiente si è svuotato. Dal mattino alla sera. Non di un’unica giornata, ma è come se lo fosse. Le due scene, collocate all’inizio e quasi alla fine (cui seguirà un epilogo dove tutto ricomincia, dove i gesti si perpetuano immutabili e sospesi), incorniciano l’opera prima di finzione e l’esordio nel lungometraggio di Irene Dionisio Le ultime cose. Ma la trentenne regista torinese, che alterna cinema e videoinstallazioni espandendo e contaminando i confini delle immagini, ha in filmografia anche due lavori documentari sul bordo tra mediometraggio e lungometraggio che ben esprimono la sua idea di osservazione del reale: La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti (2011, 55’) e Sponde. Nel sicuro sole del nord (2015, 60’). E, per sua ammissione, Le ultime cose nasce da una lunga frequentazione di un banco dei pegni, dalla raccolta di un ampio materiale composto dalle testimonianze degli impiegati, degli utenti, dei ricettatori appostati sul marciapiede. Dunque, una base documentaria da rielaborare poi nei codici di una sceneggiatura, di una narrazione, della costruzione di un set che, al tempo stesso, libera lo sguardo e la parola e li imprigiona.
Lo sguardo e la parola. E i gesti, le espressioni, i comportamenti accennati più che dichiarati, introversi più che estroversi. Il contatto sfiorato, silenzioso, sussurrato tra personaggi – tutti, ognuno con le sue differenze, abitati da molteplici solitudini e derive sociali, che talvolta conducono fino al cinismo – che non si incontrano mai, anche quando forse potrebbero, isolati tanto nei loro luoghi privati quanto in quelli pubblici, in quella moltiplicazione della separazione rappresentata dall’esterno del banco (la strada, il marciapiede), dall’atrio d’attesa, dai vetri degli sportelli che pongono distanze fisiche e relazionali tra i clienti disperati e le maschere indossate dai dipendenti più spregiudicati. All’interno di questo “racconto corale sullo stare nel mondo al tempo della grande diseguaglianza” (sintesi tematica del film), che, scena dopo scena, si scioglie dalle restrizioni di un ricorso troppo puntuale a una punteggiatura visiva e verbale (si pensi all’insistere sui dettagli e a certi dialoghi rigidi), Dionisio individua nitidamente quali sono le situazioni e i corpi che la attraggono di più, ai quali aderire convinta, riservando le attenzioni più delicate, esplorandoli con complicità e sensualità. Sono quelli di Stefano, nuovo impiegato al banco dei pegni, e di Sandra, tornata in città anche se ciò le provoca infinito dolore e incomprensione (“Ero un uomo”, dirà a Stefano). I due giovani si incontrano in brevi scene, eppure bastano anche solo poche inquadrature per dire i loro stati d’animo, dentro e fuori il banco (sull’auto di Stefano quando Sandra gli chiede un passaggio; nell’appartamento dove Sandra trova temporaneo riparo). Quelle inquadrature sanno, più di tutte le altre, di verità, vibrano di un’intensità tenera e dolorosa, in particolare sul corpo e sul volto magro, tormentato, spigoloso (e “diafano, puro, androgino” secondo la regista) di Christina Andrea Rosamilia, esordiente nel ruolo di Sandra. Gli occhi arrossati di Sandra, e in seguito anche quelli di Stefano, sono il segno preciso di un disagio abissale e indelebile che cerca appigli. Li troverà, forse, da qualche parte non ancora individuata. Sandra si congeda dal film ri-partendo, di notte, su un treno, guardando fuori dal finestrino. Stefano prende parte all’asta speciale posta come epilogo, si concentra sul lavoro ma si distrae, volge la testa e lo sguardo in un’altra direzione. Linee di fuga tracciate da occhi e corpi inquieti che Dionisio (ri)avvicina dopo averli separati.