Inspiegabile con altro cinema che non sia il suo cinema stesso, il cinema di Nanni Moretti è altrettanto insondabile e a suo modo privato anche nella composizione del suono, e segnatamente nella scelta dei brani (cantati o strumentali) complementari alle partiture originali dei suoi film. Accade da oltre trent’anni, tra concatenazioni/cicli più o meno lineari (le canzoni di Battiato presenti in Bianca, La messa è finita, Palombella rossa) chiasmi lunghi (il raddoppio -curiosamente sempre diegetico- di Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli in Bianca e La stanza del figlio), contrasti ricercati (le canzoni quasi sempre “pop”, i brani aggiuntivi quasi sempre “alti”), occasionali aperture alla indie contemporanea seppur scollate dalla sensibilità della nicchia/massa (il Damien Rice di Il caimano).
Scelte così forti (sebbene non radicali) da porsi anche come ri-orientative del gusto dei suoi adepti (quanti hanno scoperto Brian Eno –o meglio una faccia, non particolarmente rappresentativa, di Brian Eno- dopo By This River in La stanza del figlio? In quanti hanno rispolverato Keith Jarrett dopo Aprile? O Mercedes Sosa nel 2011?). Per Mia Madre, film gemello/rovescio di Habemus Papam, chiusura di un dittico pubblico/privato (ma anche meravigliosa, ipotetica opera terminale: non stupirebbe se non ci fosse altro, dopo) all’insegna di (in)certezze addirittura socratiche e dubbi concretamente amletici, film in cui Nanni si delocalizza nella Buy esattamente come la Margherita regista esorta i suoi attori a trovare una dimensione in cui la persona affianchi il personaggio, unico suo film in cui tutti gli attori della vita reale conservano i propri veri nomi di battesimo, Nanni ha scelto di non commissionare musiche e ha costruito l’intera colonna sonora esclusivamente con brani editi. E si capisce: nella riflessione tra vita e cinema che Mia madre (tra le moltissime altre cose) sottende, la finzione del cinema è sempre in lavorazione (le scene di riprese del film fittizio di Margherita non hanno alcun commento musicale così come, per la loro natura non flagrante i “sogni” -o i ricordi…-), mentre la Vita (ovviamente dentro la morte al lavoro) contempla sempre un accompagnamento. In continuità con la scelta del poderoso Miserere di Arvo Pärt in chiusura di Habemus Papam, un’ampia selezione di brani (ben otto) del compositore minimalista estone va a comporre un’ossatura/ombra di soundtrack che si adagia lungo l’intero arco della pellicola.
Le spezzature, stavolta, hanno le cadenze felpate di Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen, di Baby’s Coming Back To Me dell’ex-Pulp Jarvis Cocker (quasi una take “solare” di By This River), del Quartetto d’archi n°2: Company di Philip Glass (forse non casualmente intitolato a Samuel Beckett), al lirismo dell’islandese Ólafur Arnalds che intreccia piano, archi ed elettronica alla voce di Arnor Dan Arnorson. La sequenza di ballo tra John Turturro e la costumista rinnova la fascinazione di Moretti per il pop-raï e la “dance” araba: ma al posto del Rachid Taha di Il Caimano a fornire il brano dell’esibizione (intitolato Charisma) sono le italianissime carneadi -almeno per chi scrive- Cinzia Donti e Isabella Colliva. A completare il quadro manca solo l’usuale pezzo di repertorio italiano, che stavolta è più sorprendente del solito, e splende di decodificazione: è Bevete più latte di Nino Rota (e Mario Cantini), leitmotiv di Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio ’70 firmato dal grande dreamer bugiardo Federico Fellini. Lo canta, in auto (…), a squarciagola, John Turturro. Con la stessa cadenza forzata e timbrata antinaturalistica anitaekbergiana (eheh) con cui Nanni lo ha impostato per il suo ruolo. Saldando nella nostra ricerca di senso il desiderio che, al fondo, si sia al cinema a morire, dormire, sognare forse.