E’ la determinazione di una scelta. L’atto unico di una posa in opera che contiene tutto l’universo, lo descrive e lo riscrive come fosse un decalogo di regole per definire la realtà. Non per nulla Les Beaux Jours d’Aranjuez sta in un imprinting edenico – un giardino, un uomo, una donna, persino una mela, e anche un creatore – illuminando la definizione di uno spazio scenico come stratificazione di sensi e volontà, ma soprattutto come luogo delle memorie. Il 3D aggiunge la profondità, questo va da sé, ma come sempre in Wim Wenders (che è davvero uno dei pochi registi che ha capito cosa farne) ha una ragione prospettica tutt’altro che spaziale, visto che lavora sulla fuga dinamica del tempo dei protagonisti in un altrove da tenere tutto a fuoco, come fosse un ricordo della vita reale che scorre sullo sfondo.
La pièce di Peter Handke, messa in scena nel 2012, si riversa con tutto il suo peso testuale sulla materia di questo film così astratto e liminare (viene in mente il Kiarostami di Copia conforme), mentre Wenders dissemina il dialogo d’estate dei suoi due protagonisti di una ratio registica quasi geometrica, una gestione dello spazio che sembra quasi quella dell’amato Ozu (soprattutto l’Ozu del muto…) quanto a disposizione dei volumi e delle figure. Les Beaux Jours d’Aranjuez è un film di determinazioni, più che di azioni, nel senso che corrisponde a una volontà ferrea del narrare soggiacente a delle regole: il setting quasi decameronico (una sfida del narrare secondo regole precise: niente risposte monosillabiche, franchezza assoluta, nessuna azione…) illustra la creazione di un obbligo alla memoria soggettiva che parte dal momento del primo desiderio rievocato dalla donna e arriva all’ebbrezza della libertà rievocata dall’uomo. In mezzo la scansione dialogica di un rimembrare che è la reincarnazione degli strati di passione, desiderio, consapevolezza emotiva. E poi c’è l’altra determinazione, quella dell’atto creativo, ché i due attori agiscono in presenza del loro creatore, dello scrittore che, alle loro spalle, all’interno della villa, guarda a quel giardino e scrive ciò che le sue creature hanno da dire. In realtà è lui il primo ad essere nel film, il primo ad animarsi dinnanzi al foglio bianco. La sua macchina da scrivere sta all’uomo e alla donna come lui stesso sta alla macchina da presa, in una mise en abyme della rappresentazione che travolge tutto, mettendo in causa la strategia stessa del narrare, compresa la funzione scenica e diegetica della musica, che gira sugli ingranaggi di un vecchio juke-box così come sui tasti del pianoforte di Nick Cave evocato in scena. Il punto è proprio questo: Les Beaux Jours d’Aranjuez è un film sulla stratificazione della realtà come atto del ricordare e del rimembrare, ovvero del riattualizzare ciò che è stato e sempre sarà. Un regista lumièriano come Wenders resta iscritto proprio nella posa del filmare come testimonianza, come luogo del memorizzare, dell’affidare alle immagini il divenire.