Barbie figlia del boom economico del secondo dopoguerra, Barbie feticcio della cultura pop immortalata in un quadro dal suo massimo cantore Andy Warhol e in un tormentone disco da quei cantori piuttosto mediocri che sono stati gli Aqua, Barbie controversa (nera, paralitica, incinta…), Barbie oggetto di culto di decine di migliaia di collezionisti (Mattel dixit), Barbie franchise infinito, Barbie marketing inarrestabile che travalica le generazioni, dai baby boomer che l’hanno inventata ai ragazzi Alpha, Barbie AI per contrastare una decina d’anni or sono il crollo delle vendite… ma soprattutto Barbie rosa con la quale eserciti di bambine sono state spinte (o costrette) a identificarsi definendo in/con lei una nozione di femminilità prêt-à-porter e che altrettanti eserciti di bambini sono stati spinti (o costretti) a rigettare definendo in contrasto con lei una nozione di mascolinità di blu armata.
Le aspettative sul film Barbie di Greta Gerwig, prodotto da Mattel e distribuito da Warner Bros, insomma IL film su Barbie, costato appena 145 milioni di dollari, non potevano che essere altissime. Come talvolta accade, all’altezza delle aspettative è direttamente proporzionale il fragore della caduta, ma di buono c’è che lanciando nel vuoto un oggetto di materiale sintetico e leggero (come il polivinile di cui sono fatte le bambole) probabilmente quell’oggetto farà un tonfo piuttosto sordo e non si romperà. Il problema del film diretto da Gerwig, che lo ha sceneggiato insieme al compagno Noah Baumbach, è che si rivela dalle prime battute così sintetico e leggero che il vuoto lo incontra, ben prima della caduta, nella sua stessa pancia: lo alimenta fin dalle prime battute (stonate, nonostante la voce sia quella sublime di Helen Mirren) della narratrice, lo condisce con tirate moralistiche che farebbero impallidire i predicatori di strada, lo vezzeggia con strizzate d’occhio citazionistiche di cui si vergognerebbe perfino l’irriducibile Baz Luhrmann (inarrivabile quella iniziale, da bigino liceale del cinema, del monolito di 2001: Odissea nella spazio di Kubrick), lo svela inesorabilmente con il femminismo d’accatto (nella forma del più becero femvertising) mobilitato a giustificare la guerra tra le barbie e i ken, lo fa esplodere con un uso selvaggio del product placement stile trasmissione da tv commerciale.
Ora, che Gerwig e Baumbach, coppia di enfant prodige prima dell’indie poi del mainstream statunitense, sappiano come si fa cinema di alto livello (penso a Storia di un matrimonio di lui e a Lady Bird di lei) non abbiamo dubbi. Il dubbio invece insorge e diventa doloroso quando due menti così brillanti partoriscono un racconto infarcito della forma più becera e insopportabile di politically correct: quello centellinato e monetizzato a ogni battuta e inquadratura, arma di distrazione di massa che solletica il senso e la morale comuni mentre, facendo il verso a se stesso, mira semplicemente a (continuare a) vendere un prodotto (già venduto milioni di volte) pianificando ogni dettaglio della comunicazione e generando una sensazione opprimente di inautentico (i personaggi imbarazzanti dei dirigenti della Mattel ne sono un esempio da manuale).
Lungi dal demonizzare il marketing e la pubblicità, due ore di spot rischiano di essere insostenibili anche per i collezionisti della nostra fashion doll e i nerd che accorreranno in massa a vedere il film. Qualcuno potrebbe replicare che le bambole e i giocattoli in genere sono per definizione inautentici perché fatti di superfici sintetiche che richiamano la realtà senza pretendere di imitarla, ma il film ha pretese di dare spessore di emozione (Barbie piange!) e di pensiero (Barbie usa la dissonanza cognitiva per ottenere la gender equality!!) a quelle superfici con un richiamo finale alla realtà (Barbie lascia Barbieland per vivere nel Mondo Reale), una scelta esistenziale di abbandonare quelle superfici perfette, scintillanti ed eterne per le profondità grezze, oscure e mortali del mondo. Ammesso che in Barbie ci sia un’estetica, occorrerebbe spiegare alla nostra coppia di enfant prodige che il postmoderno, unica cornice in cui il film è inquadrabile come oggetto (pseudo)estetico, è morto da tempo e che i tentativi di rivitalizzarlo sono puntualmente condannati a generare surrogati pieni di vuoto e destinati a cadere nel vuoto.
Goffaggini da boomer in ritardo sulla Storia, incomprensibile se si pensa che Gerwig (classe 1983) è una millennial e Baumbach (classe 1969) un Gen. X. Goffaggini funeste se persino un attore bravo come Ryan Gosling fa una brutta figura girando per tutto il film spaesato e imprigionato in un six pack che, mentre allude al culto della verità alla Actors Studio, ci fa pensare ai corpi di migliaia di fitness influencer che imperversano su Instagram e TikTok. Si salva Margot Robbie, rea di avere contribuito alla produzione del film, solo perché l’inconsistenza verbosa e irredimibile del suo personaggio viene in parte camuffata dalle eco non ancora spente della sua performance eccezionale in Babylon di Damien Chazelle, lui sì uno sceneggiatore-regista capace di raccontare superfici e artifici del nostro mondo scavandoli dall’interno, per eccesso di folgorazioni visive e per esplosione di idee, quelle stesse folgorazioni e idee che avremmo voluto trovare in Barbie, un racconto che avrebbe potuto usare la bambola diventata sineddoche di ogni superficie e artificio come grimaldello per dischiudere nuove letture di un mondo la cui ossessione per i consumi è diventata causa di agonia (nonostante i tentativi postmoderni di legittimarla culturalmente). E invece abbiamo trovato solo la retorica disperata, fatta di sorrisi a denti stretti, di una Hollywood (e di tutto ciò che essa rappresenta e in essa si rappresenta) che non si rassegna alla sua inesorabile perdita di centralità.