E’ solo la fine del mondo, qualcosa di simile all’esito finale di Kaïro, una deriva verso l’infinita dissolvenza dell’umano esistere. Solo che in Before We Vanish (Sanpo suru shinryakusha, a Un Certain Regard) a dominare non è l’incubo, non c’è il volto distorto e l’incedere disarticolato degli spettri, ma le risonanze del cinema d’invasione anni ’50, riscritto nella diafana realtà di un mondo che appare sempre più indifferente e indifferenziato. Kiyoshi Kurosawa del resto percorre i generi classici a modo suo, ristrutturandoli secondo la sua visione destabilizzante, in cui l’intensità drammaturgica si stempera nella quieta distopia di scenari fantasmatici che richiamano sentimenti dispersi: dopo il gotico di Daguerreotype, vengono gli alieni invasori di Before We Vanish, film stranamente docile e dolce, in cui l’angoscia della fine viene sostituita da un anelito di indifferente sopravvivenza che lascia storditi. Nessuna presenza inquietante, ovviamente: Kiyoshi Kurosawa è autore che normalizza, lo sappiamo bene, gioca sulla duplicazione della presenza nella norma dell’esistente, va di doppelgänger, per sostituzioni accanto ai viventi. L’ispirazione viene da una pièce teatrale di Tomohiro Maekawa molto nota in Giappone, ma sono ultracorpi senza nemmeno i “baccelli” di Don Siegel, gli alieni di Before We Vanish. Tre di loro, in avanscoperta, prendono il posto di altrettanti umani per apprendere la specie: una letale ragazzina che smembra la sua famiglia, un adolescente scaltro e un po’ cinico, che sembra uscito da Bright Future, e un impiegato in rotta con la moglie. D’improvviso non sono più loro, posseduti come angeli senza più consapevolezza di ciò che significa essere umani, figure neutrali come spesso accade nel cinema di Kurosawa, sbiadite nella loro identità e nelle emozioni, svuotati della consapevolezza.
E infatti quello che questi tre emissari degli alieni cercano sulla Terra è proprio la consapevolezza del significato di alcuni concetti base dell’umana convivenza, cose come il Possesso, la Libertà, il Lavoro, la Famiglia… Rubano queste “cose” alle persone e lo fanno loro, lasciando i malcapitati come svuotati, corpi flosci e inermi che vagano spaesati. Nessuno capisce davvero cosa sta accadendo, se ne fanno un’idea gli umani che i tre scelgono come loro guide, lasciate intatte nella loro umanità perché indispensabile a spiegare loro la specie: un giornalista scaltro che accetta di servire il ragazzino e la moglie dell’impiegato, che per resistente amore, lo accudisce. Kurosawa districa l’intreccio con il suo solito tocco vago, senza incidere la materia dell’azione, anche se lo scorrimento degli eventi è piano, evidente, senza zone d’ombra. La fine imminente è annunciata dagli alieni senza mezzi termini, senza rabbia o violenza, solo la determinazione di qualcosa di ineluttabile. E se l’invasione avanza, la resistenza latita nella distrazione di un mondo che non si accorge dei sintomi sino a quando non diventano epidemia… Cosa mai possa salvare da questa invasione è, come sempre, un elemento tanto scontato da essere impensabile, qualcosa che resta scritto nella traccia più autentica e profonda dell’umanità. Kurosawa procede verso questo finale tenendo fede al suo portato apocalittico, citando esplicitamente Kaïro, visualizzando un mondo che implode nelle sue angosce, nella diafana evidenza della paura. Niente astronavi, ma palle di fuoco e un bombardiere che insiste nell’immaginario del regista come il più spaventoso dei fantasmi…