Nella retrospettiva Black Light, dedicata dal festival alla moltitudine di sfumature del cinema black dalla fine degli anni Dieci del Novecento alla conclusione del secolo (si ferma al 2000), c’è anche La noire de… di Ousmane Sembene, uno dei padri del cinema africano. Con quel suo primo lungometraggio il cineasta senegalese realizzò nel 1966 uno dei film fondativi della storia cinematografica del continente africano. Oltre cinquant’anni dopo il Senegal vede la nascita di un nuovo regista, Mamadou Dia, al suo esordio nel lungometraggio (dopo quattro corti e esperienze come direttore della fotografia; risiede a New York) con Baamum Nafi (Nafi’s Father, in concorso nella sezione Cineasti del presente). Un’opera che non racconta Dakar, bensì una città, Yonti, lontana cinquecento chilometri dalla capitale. Una piccola comunità e un luogo filmati nella loro quotidianità e nello scorrere consolidato del tempo: il fiume, le strade frequentate da bambini, adulti, animali, le attività commerciali, i giochi e i lavori… Ma qualcosa sta cambiando, rischiando di trasformare Yonti in un posto rigidamente oscurato dall’integralismo.
Non si può non pensare a Timbuktu di Abderrahmane Sissako, ma in forma ‘piana’ per narrazione e sguardo. E alla tragedia e al western. Tragedia perché al centro di quella che diviene sempre più una faida ci sono due fratelli dalle vedute (Tierno, religioso progressista; Ousmane, avvinghiato al potere e al desiderio di diventare sindaco) e dai trascorsi opposti (Tierno, imam locale obbligato a quella scelta e a sposarsi dal padre; Ousmane, figlio prediletto dal genitore che lo mandò a studiare in Occidente), che diventano nemici coinvolgendo nella loro guerra (“le guerre sono fatte dagli adulti”, dice un uomo, e ne fanno le spese i giovani) i figli, Nafi e Tokara, che si amano. Western nel senso che Baamum Nafi lavora – per rendere la tensione crescente, le ostilità, le divisioni – sui primi piani, soprattutto dei due fratelli, e poi anche del nuovo venuto dalla Mauritania, portatore di oscurantismo religioso da applicare a ogni situazione. Primi piani su volti che disegnano quelle lotte, fatte di parole e pensieri e infine insanguinate, con l’intensità di una sfida da film western ‘concentrata’ su quelle facce-spazio.
Opera prima dignitosa, Baamum Nafi mette in scena, in un ambiente tra contadino e urbano, una serie di personaggi rappresentandoli nelle loro diversità senza moralismi, con una certa naturalezza, pur rimamendo tutti ancorati ai loro modi di pensare e agire. Servirà, forse, il gesto estremo di un doppio omicidio a fermare il terrore ormai diffuso. Mamadou Dia non dà risposte, ma sa bene da che parte stare. Quella di Tierno, sempre più malato, vicino alla morte eppure mai arreso alle seduzioni in denaro e armi del potere politico e religioso, e che alla fine ri-trova un silenzioso gesto d’affetto, ricambiato, verso la moglie, un istante di tenera tranquillità e solidarietà. Quella della figlia Nafi, desiderosa di recarsi a Dakar e frequentare l’università, che se ne andrà da Yonti, ancor più dopo l’omicidio del fidanzato (ma, prima o poi, quel passo lo avrebbe fatto comunque, grazie alla sua determinazione). Quella delle donne che non cedono al ricatto di portare il velo. Quella dei bambini che continuano a giocare a pallone, anche se gli adulti integralisti glieli bucano, e a far correre le gomme di ruote d’auto per le strade.