La Priscilla di Sofia Coppola è lost in Elvis

La prospettiva di partenza è spiazzata, fuori centro: lost in Berlin, Elvis e Priscilla si conoscono e si tengono nel fuori tempo delle loro vite, arruolati dall’America che occupa la Germania. Lui ventiquattrenne in divisa, star del rock in pausa marziale, lei quattordicenne americana al seguito del padre ufficiale, i due sono i soliti corpi in sospensione amniotica raccontati da Sofia Coppola. Navigano a vista avendo come uniche coordinate il tempo e lo spazio che occupano insieme. Il punto focale di Priscilla (in Concorso a Venezia80) è perfettamente coerente con il cinema della regista, scaturisce da una visione della realtà che lavora sulla determinazione vaga e illusiva della relazione tra sfondo e figura e trova nella distanza che separa la ragazzina dalla star la misura di uno smarrimento a lungo termine: dieci anni di vita di Priscilla Beaulieu in Presley, dai 14 ai 24, una bolla esistenziale che dal muro di Berlino passa alle mura di Graceland. In mezzo c’è l’amore e c’è la deriva dei sentimenti, il progressivo allontanamento dei due, la separazione.

 

 

E null’altro, se non la trasformazione di una bimba invaghita in donna innamorata ma delusa, che prende il mano il proprio destino e apre la porta della propria vita, lasciandosi alle spalle il marito star.
Certo, le coordinate di Sofia ci sono tutte, ma Priscilla non trova mai il cinema della Coppola, resta sospeso su una messa in scena che non coglie le possibili linee espressive di una storia che avrebbe potuto essere raccontata annullando la forza di gravità del biopic, basato sul libro Elvis and Me scritto dalla protagonista assieme a Sandra Harmon. L’approccio è troppo immediato, manca di astrazione, si affida alla scansione degli eventi biografici senza trovare la via del pensiero, che è quella su cui il cinema di Sofia Coppola in genere si forma, né quella non meno importante dell’illusione, del gioco vano, della formulazione ipertrofica degli ambienti e delle figure. Di fronte al mito Elvis (Jacob Elordi) il film resta quasi indifferente, lo traduce nel linguaggio di una quotidianità vana, senza trovare le dimensioni poetiche che avrebbero permesso alla regista di far lievitare l’universo in cui la sua Priscilla (Cailee Spaeny) si muove. La stessa Graceland è uno scenario quasi invisibile, laddove poteva essere lo spazio di uno smarrimento in cui far crescere il senso di perdita della protagonista. Tutto resta collegato a una ricostruzione in scala reale e si sente la mancanza di un immaginario, la carenza di linee prospettiche capaci di slargare la realtà della storia, delle figure e degli ambienti.