Come la casa alto borghese di L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel o come l’ex manicomio di Cecità (1995) di José Saramago, la fabbrica di Maquinaria Panamericana di Joaquín del Paso, in concorso al 34 Torino Film Festival, dopo essere già stato premiato in vari altri festival e nominato come miglior film alla scorsa edizione della Berlinale, è un luogo dell’anima, metafisico, surreale. Inizialmente un luogo ideale (u-topos), in cui ogni giorno si apre con il direttore che motiva i suoi dipendenti, impiegati e operai, con massime edificanti e con un invito a sperimentare e a godere la vita, sempre seguito da musiche allegre. Poi, quando viene scoperta la morte del presidente, che viveva in una casa incapsulata nella fabbrica, dopo un primo annuncio di completa smobilitazione, i dipendenti si barricano nella fabbrica per impedire alla multinazionale a cui essa appartiene di chiuderla definitivamente. A poco a poco le dinamiche tra i dipendenti incominciano a cambiare, si manifestano follie via via sempre più grandi, fino a trasformare la fabbrica felice in luogo incomprensibile (dis-topos), in cui una sorta di baccanale libera una pulsione (auto)distruttiva insopprimibile. Così il topos si fa tropo: lo spazio chiuso, a tratti claustrofobico, è quello delle paure, dei rapporti di potere, dei conflitti sociali, delle menzogne paralizzanti, della globalizzazione aggressiva. Ma come in ogni mondo imperfetto, a un certo punto si fa avanti un salvatore… perché, come diceva Oscar Wilde, «una mappa del mondo che non include Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo paese al quale l’umanità approda di continuo. E quando vi approda, l’umanità si guarda intorno, vede un paese migliore e issa nuovamente le vele».