Non un film sull’Olocausto, bensì una riflessione (l’ennesima per il regista russo) sulla condizione dell’essere umano. È così che Andrej Michalkov Konchalovsky descrive il suo Paradise, uscito da qualche settimana in Italia con una distribuzione tutt’altro che capillare. Leone d’Argento per la regia alla Mostra del cinema di Venezia nel 2016, Paradise ricostruisce le storie attigue di tre personaggi, tra la Parigi occupata e la Germania dei campi di sterminio, mostrando i meccanismi che hanno contribuito a portarli nell’al-di-là insieme, dove ora ricostruiscono di fronte a noi il loro percorso. Un film fatto quasi di sole di parole (è parlato in francese, tedesco e russo), che assecondano la camera fissa, il bianco e nero e il formato quadrato 1:37 dei tempi ormai antichi, eppure non privo di passione, semplice ma non semplicistico nell’affrontare una materia tanto difficile ancora oggi. Olga, aristocratica russa emigrata (e ora parte della Resistenza francese), Jules, commissario di polizia collaborazionista, ma anche pronto a tornare indietro nella sua ideologia di sopravvivenza, Helmut, ufficiale di alto rango delle SS, aristocratico e bellissimo nei suoi deliri di utopia e di dubbio.
L’inizio non può che ricordare Simenon. Libero e sfuggente, tutto dedicato al francese Jules, padre di famiglia preoccupato per i voti del figlio, ma brutale e minaccioso con la moglie e la prigioniera Olga, arrestata col sospetto di nascondere e salvare i bambini ebrei dalla deportazione. Per non rischiare la vita, finisce ucciso da un partigiano nel boschetto davanti casa, sotto gli occhi del figlio. E così sarà il primo a comparire davanti a questo strano confessionale, camicia bianca su fondo bianco, per raccontare la sua storia. E sarà anche il personaggio più marginale, ma necessario a creare quest’aura straniante, antispettacolare e raffinata, dove il gioco è di non mostrare quasi nulla ed esaltare la sospensione di ellissi profondissime. Prima nota ironica in un film che sceglie di rappresentare una storia potenzialmente drammatica attraverso uno sguardo dimesso, usando solo mezzi toni, senza mai scivolare nell’enfasi (anche per noi spettatori), nella continua e beffarda sovrapposizione dei “paradisi” possibili, scellerati o divini che siano. Voci dal paradiso, dunque, per parlare dell’inferno in terra che furono i lager nazisti. Episodi minuscoli ordinati secondo una scansione in crescendo, che non può che chiudersi con la morte e la vita. Perché la guerra sta per finire e quei bambini per i quali tutto è iniziato, possono continuare a litigare e passare indifferenti e indenni oltre l’inferno. Konchalovsky (di cui aspettiamo di vedere Il peccato sull’opera e il tormento di Michelangelo) fa largo uso del paradosso a partire da un sottile stratagemma: far identificare la macchina da presa con lo sguardo “divino”, di colui che ascolta e giudica i peccatori coinvolti in questa storia. I tre protagonisti, infatti, guardano diritto alla macchina da presa e a “lei” (e quindi allo spettatore) confidano i dubbi dei loro ultimi giorni. Senza filtri, in apparenza, in realtà mediati/influenzati dalla sobrietà del discorso e del racconto, e dalle linee invalicabili di quell’inquadratura troppo stretta, che lascia tutto fuori campo. “Per fare del bene ci vuole sempre uno sforzo in più” dice Olga alla fine, mentre il male si alimenta e procede da solo. Come dire che solo con la consapevolezza si possono fare deviare i destini del mondo.