Il quarantaduesimo di film di Claude Lelouch Parliamo delle mie donne è al tempo stesso una conferma e un azzardo (più formale che tematico), completamente tenuto sul filo di un equilibrio precario, eppure radicato in una pratica di narratore disinvolto e svelto. Perché il regista francese, premio Oscar per Un uomo, una donna, racconta storie private, si potrebbe addirittura dire autobiografiche, ma rivisitate secondo schemi liberi dal fardello della verosimiglianza. Come dire che una verità è più vera se eccede se stessa, come nel caso del fotografo di guerra di fama mondiale Jacques Kaminsky (interpretato da Johnny Hallyday), deciso a ritirarsi a vita privata in una casa di montagna. Superati i settanta, archiviati i viaggi in giro per il mondo, stanco di Parigi e dell’ennesima moglie, si compra a caro prezzo un alpeggio elegantissimo sulle pendici del Monte Bianco, versante francese, sperando di poterlo condividere con le quattro figlie, chiamate con i nomi delle stagioni, e avute da quattro madri diverse. Per una volta non ci sono spaesamenti e digressioni in un film di Lelouch, ma una narrazione tutta ambientata in un unico luogo, dal carattere piano, anche se imprevedibile, con molti possibili punti di osservazione, ad assecondare la coralità del racconto.
Le figlie, Jacques, l’amico di sempre Frederic, la nuova compagna, l’aquila semi-domestica che aleggia amichevole sulla proprietà, osservano, vivono questo microcosmo e ne sono al tempo stesso osservati, ciascuno a partire dal proprio punto di vista, che arricchiscono della loro vitalità. Un film che a tratti sorprende, si diceva, per la capacità del regista francese di rubare al contesto immagini in flagranza, e per la sua indipendenza rispetto alle regole. E così episodi “necessari” si susseguono a momenti di pura contemplazione, e a scene accessorie ma ricche di umanità e passione per il cinema. Come quando Jacques e Frederic se ne stanno sul divano a cantare la canzone del film Rio Bravo, dando modo a Lelouch di rendere omaggio i suoi amori, e ai protagonisti e alla storia di “scaldarsi” in curve emozionali e distendersi in una scena di pura contemplazione. Parliamo delle mie donne (ma in originale era l’intraducibile Salaud, on t’aime, come il titolo del libro scritto dalla figlia maggiore di Jacques) ci fa pensare che tutto possa accadere, nei film e nella vita, con leggerezza e allegria, ma accogliendo tutte le sfumature dei sentimenti e le sfaccettature delle situazioni. Perché se è vero che il regista francese ha attinto dalla sua esperiena personale di padre e marito, è anche vero che ha giocato con i suoi personaggi come fossero specchi, inventando per loro spazi e stagioni per incontrarsi (si pensi al finale, con l’arrivo della quinta sorella cubana) e destini scivolosi ma pieni di prospettive. Sarebbe bello, a questo punto, conoscere la versione originale, più lunga di 15 minuti (e le ragioni che hanno spinto la distribuzione italiana ad intervenire così pesantemente), per chiudere cerchi che restano, invece, aperti, frasi sospese che portano a un compimento del quadro, come il finale nella chiesa, in cui si scoprono altri osservatori taciturni e invisibili fino ad ora, le mucche fotografate da Jacques e colte in quella lieta armonia di cui tutto il film gode.