Ore 17.00, Ponte della Libertà, Budapest. A quell’ora e in quel luogo si danno appuntamento Márta (Natasa Stork) e János (Viktor Bodó), dopo essersi incontrati un mese prima a un convegno negli Stati Uniti, dove lei conduce una brillante carriera come neurochirurgo. Márta ha deciso di lasciare tutto per quell’amore, ma il giorno dell’incontro, alle 17.00, sul ponte, János non si presenta. Lo cerca, si fa assumere nello stesso ospedale dove lui lavora, lo trova e gli chiede del mancato incontro. L’uomo sostiene di non conoscerla. La vertigine del dolore le fa perdere i sensi. Inizia così l’opera seconda della regista e sceneggiatrice ungherese Lili Horvát – già apprezzata nel 2015 per The Wednesday Child – in concorso a Venezia nella 17° edizione delle Giornate degli Autori con Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo. La Horvát non lascia spazio a dubbi circa i temi trattati nel suo nuovo film, citando in apertura la poesia Canzone d’amore di una ragazza folle di Sylvia Plath, la cui voce narrante soffre per un amore non corrisposto o, forse, addirittura inventato. Amore, follia, isolamento, negazione, disillusione. Così come la ragazza folle della poetessa americana, la protagonista della pellicola di Horvát è sospesa nel dubbio di essere offuscata dalla passione o da disturbi neurologici e della personalità. Determinata a risolvere l’enigma, Márta decide di continuare a lavorare nell’ospedale di Budapest dove, sia per la sua scarsa familiarità con la cultura locale, sia per il suo talento fuori dal comune, risulta un’estranea.
Con determinazione si lascia scivolare addosso discriminazioni più o meno esplicite, mentre naviga nella terra di nessuno che separa l’amore dalla follia. Come la Madeleine di La donna che visse due volte di Hitchcock, la Adèle H. di Truffaut, o le protagoniste della trilogia dei colori di Kieślowski, Márta è una donna forte ma al contempo vulnerabile nell’affrontare con incertezza i propri sentimenti. La scissione cuore/mente, sentimento/razionalità risulta evidente durante le sedute di analisi a cui si sottopone: si può desiderare a tal punto qualcosa da finire con l’inventarselo? Amiamo veramente chi diciamo di amare o piuttosto ci attacchiamo visceralmente a una proiezione, a un’idealizzazione? La regista indugia su primissimi piani dei profondi occhi blu di Márta. Occhi che sono finestre aperte sul sistema nervoso. Immediatamente dopo l’analisi della terza figura del test di Rorschach, nella quale identifica due figure speculari con seno e pene e il cuore significativamente fuori dal corpo, Márta altrettanto specularmente diventa oggetto dell’amore del giovane studente di medicina Alex (Benett Vilmányi). Dunque, non solo idealizza ma viene idealizzata. Horvát tesse una delicata rete di contrasti che sposta continuamente la percezione dello spettatore, delineando un racconto di sospensione estatica meravigliosamente reso dal 35mm e dalla dominanza cromatica dei blu e dei verdi profondi della fotografia di Róbert Maly. Soffuso ed efficace l’uso del fuoricampo a sottolineare il sentimento di attesa e di incertezza, tanto della protagonista quanto dei pazienti in ospedale. “Non sapevo chi fosse ma sapevo che era ciò che volevo” sostiene con cieca convinzione Márta sin dall’inizio: ma come spiegare razionalmente il non sapere chi una persona sia e, allo stesso tempo, avere la certezza che sia esattamente ciò che vogliamo? Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo ci spinge a riflettere sul significativo ruolo dell’immaginazione nell’innamoramento e quanto questa abbia peso nel colmare una profonda, forse insanabile, solitudine affettiva.