Quando Moussio chiede in sposa Tayi, lui vive a Ginevra, studia per specializzarsi alla facoltà di medicina e lavora in ospedale. Lei, invece, è appena maggiorenne e accetta di sposarsi in assenza del marito per poterlo raggiungere subito in Europa. In Svizzera l’ambiente è molto diverso da quello di Tehran e la giovane ne è felice e spaventata al tempo stesso. Il marito la porta fuori con gli amici, nei caffè, nei ristoranti, a sciare, ma per lei, che indossa il velo e recita ogni giorno le preghiere, il disagio è profondo e le molte fotografie che riempiono gli album di lui non sono d’aiuto ad avvicinare due persone tanto diverse. Inizia così il racconto di Radiograph of a Family il film che Firouzeh Khosrovani dedica alla storia dei suoi genitori, premiato all’Idfa, il festival del documentario di Amsterdam nel 2020 e uscito nei cinema italiani grazie a ZaLab. Una descrizione che la regista porta avanti grazie al largo impiego di materiali di repertorio, fotografie, filmini amatoriali della sua famiglia, le voci di due attori che recitano i dialoghi tra i due protagonisti e l’immagine di un appartamento che la regista arreda, veste e sveste a seconda dell’umore di una madre prima immatura e poi fervente sostenitrice della rivoluzione khomeinista. Due stanze filmate a partire da due soli punti di vista, che si alternano mentre il racconto procede e lo spettatore scopre la storia di un paese, diviso, appunto, tra tra laicità e ideologia religiosa.
“La storia d’amore dei miei genitori ci porta dall’era dello Scià alla Rivoluzione islamica, alle difficoltà durante la guerra Iran-Iraq, fino ai giorni nostri, il tutto nella nostra casa a Teheran. Nella mia infanzia, sono stata costantemente costretta a scegliere tra i miei genitori. Ogni giorno subivo l’imposizione da una parte e l’accettazione dall’altra”, spiega Khosrovani, che si serve di oggetti e di parole per descrivere queste due pulsioni opposte, capaci paradossalmente di alimentarsi a vicenda. La Venere allo specchio di Velázquez che sparisce dalle pareti della camera da letto, per far posto agli oggetti dell’iconografia islamica, versetti del Corano, le icone degli Imam Alì e Hossein, i due tappeti per la preghiera posti vicini al centro della stanza. Uno grande e uno piccolo per madre e figlia. Intanto risuonano le note di Bach, unico rifugio di un uomo laico che, al contrario, ha studiato in Europa e negli Stati Uniti e progettava per la figlia un futuro cosmopolita e amava fotografare per non dimenticare i momenti felici. Radiografia insolita di una famiglia che produce fantasmi o, meglio, immagini ibride, salvate dalle forbici della censura materna. Tesori sottratti all’oblio e rivisitati grazie all’intervento di una bambina che disegna le parti mancanti enunciando se stessa in quei tratti infantili ma esplicativi di un ruolo scomodo, di un desiderio di neutralità. Malinconico e nostalgico, Radiograph of a Family ha il pregio di non cercare risposte ma di mettere in fila ricordi, fatti storici, sentimenti, tensioni, differenze inconciliabili nel desiderio di definire due identità opposte e complementari al tempo stesso.