Il ribaltamento è già nell’assunto, quello che partendo dal sorriso lo trasforma in ghigno malefico: non che sia una novità, da Shining in poi (senza considerare i vari clown che fanno capolino qua e là nel genere), ma di certo la saga di Smile sembra essersi fatta carico con maggiore “serietà” del suo precipitato teorico. Che è poi quello di entrare nella sostanza delle immagini all’interno dei meccanismi spettacolari che reggono il genere stesso, per diventare riflessione più allargata sulla reificazione del mondo sottesa alle dinamiche della nostra società contemporanea. Prova ne sia che, esaurito il bel prologo in cui ritroviamo Joel, reduce dall’infezione che lo aveva lasciato unico superstite del capitolo uno, la scena è poi tutta per Skye Riley, icona della musica pop in ripresa dopo un anno funestato dalla morte del collega Paul Sheldon in un incidente stradale, ultima e più tragica tappa di un percorso di autodistruzione passato per l’abuso di sostanze stupefacenti. Ora Skye è all’alba di un nuovo tour, si è disintossicata e cerca di riappropriarsi della sua vita e della sua centralità nell’immaginario popolare, cercando di resistere alle pressioni degli impegni e alle aspettative della madre-manager che le impone ritmi e modalità di interfaccia al mondo. Peccato che di traverso la maledizione della Smile Entity arrivi a colpire proprio lei…Quel che ne segue è un tour-de-force espressivo e narrativo in cui Skye si ritrova al crocevia di incubi e visioni che intrecciano tanto il senso di colpa per le tragedie del passato, quanto le manipolazioni cui l’Entità la sottopone per cercare di piegarla psicologicamente fino a spingerla al suicidio.
Parker Finn, che scrive e dirige, si muove in questo magmatico insieme di sensazioni ragionando nel merito delle iconografie che ogni spettatore riconosce: la sua Skye può apparire di volta in voltà un po’ Lady Gaga per la magniloquenza spettacolare dei suoi numeri, quanto Britney Spears per il delicato processo di nevrosi e cedimenti sottesi alla fama. Anche per questo, a fronte di un primo capitolo che pure cercava il sostrato psicologico dei suoi protagonisti, ma giocoforza doveva dedicare molto tempo a spiegare il meccanismo delle catena di morte, qui il film amplia la componente drammatica e il character-study cercando un’empatia verso una visione letteralmente scissa a metà. Da un lato la falsità del mondo “di fuori” (ovvero quello dello showbiz), dall’altro la soggettività impazzita dell’universo interiore di Skye, già frammentato dai drammi personali e ulteriormente affaticato dalle visioni imposte dall’Entità. I due livelli progressivamente si fondono, con le visioni che si integrano ai numeri musicali attraverso una sinergia visiva che è posa in opera di una performance dell’orrore, dove i corpi ghignanti si rispecchiano nei danzatori sul palco, muovendosi sincronici nell’abitazione di Skye – una delle sequenze più prodigiose – e poi manipolano luci e gobbi con le battute da leggere in pubblico. Al contempo, Finn, pur ossequiando le dinamiche tipiche di un horror mainstream, con i celebri “salti sulla sedia” (molto efficacemente, va aggiunto), cerca un modello di messinscena che si distanzi dai classici meccanismi del teen horror, osando lunghi piani sequenza, ribaltando (letteralmente) le inquadrature e restando spesso incollato al viso di una incredibile Naomi Scott nel suo ruolo-carriera, cui è richiesta una performance non solo estremamente fisica, ma anche attenta ai microdettagli espressivi del viso.
Tanto l’attrice deve cantare, ballare e donarsi al ruolo con un isterismo totale, tanto deve insomma farsi carico dell’obiettivo della cinepresa di Finn, che le sta incollato al viso come in un dramma da camera. Ne viene fuori un horror brutalmente sincero verso una vita di dolore e sacrificio (con tutte le possibili letture connesse alla severità del mondo dello spettacolo), ma incredibilmente ingannevole nel disvelamento della sostanza stessa della realtà, dove ogni sequenza è leggibile come una visione frutto dello scollamento di Skye dal suo mondo e dunque potenzialmente fasulla e irreale. Finn lascia che la materia-cinema si immerga in questa schizofrenia, lo fa con il ghigno dell’Entità e una cupezza che nell’horror mainstream contemporaneo non ha eguali e sembra guardare più alla potenza satirica dei classici. Il finale dal canto suo non fa prigionieri e lo spettatore resta un po’ amareggiato dall’accanimento verso uno dei personaggi più tridimensionali degli ultimi tempi. Ma in fondo anche questa è solo una visione.