L’uomo, la macchina, la virtù: Comandante di Edoardo De Angelis (in apertura del Concorso a Venezia80) è un film a densità variabile. Di carne, di metallo e di spirito, lavora su un umanesimo tutt’altro che materico, semmai vagamente esoterico e spiritualista, magari con risonanze dannunziane che ne scolpiscono la sostanza superbamente retorica, impastata di mitologie, culture, tradizioni, indoli… Tutti elementi che però restano sullo sfondo, confusi, o meglio compressi in quel contenitore di vite sottovuoto che è un sommergibile. Un sentire panico che, come un sonar sott’acqua, risuona di ogni presenza, di ogni forma, di ogni movimento esterno… Il catalizzatore è l’eponimo Comandante Salvatore Todaro, messinese ma uomo di mare e d’ogni porto, quindi d’ogni lingua, presente alla storia della Regia Marina italiana come un eroe che non lancia la stampella contro il nemico, ma gli tende la mano per salvarlo. Il destino nel nome, Salvatore, viene letto da Edoardo De Angelis anche in senso cattolico, messianico, ché Todaro nasce al film cadendo in mare dall’alto dei cieli: battesimo e rinascita dall’incidente con l’idrovolante che gli procurò il congedo dall’Aeronautica e le sofferenze fisiche e il busto col quale convivere negli anni successivi, quando scelse di tornare nei ranghi della Regia Marina come comandante di sommergibili.
Uomo strano, tanto opaco nel suo stare nella realtà quanto diretto nel suo dire e nel suo fare, il Comandante Todaro di De Angelis è uno spirito inquieto, tormentato dal dolore di una sensibilità che lo trova improprio all’obbedienza e poroso nel comando: insulta malamente il medico che gli consiglia il congedo e il ritiro evocando il sacrificio nel nome del Fascismo che “è sofferenza”; non si lascia convincere dalla moglie ad accettare la pensione d’invalidità (“parola ignobile”); e prende il comando del sommergibile Cappellini, che incrocia nell’Atlantico con la missione di fermare nello Stretto di Gibilterra il flusso di navi tra Inghilterra e Stati Uniti. È qui che Todaro entra nella Storia come militare e come salvatore: intercetta il mercantile Kabalo, che, pur battendo bandiera belga (paese ancora neutrale) ha aperto il fuoco, e lo affonda. Ma decide di salvarne i superstiti, stipandoli a bordo e mettendo a rischio il suo equipaggio, costretto a navigare in superficie sino alle Azzorre, dove li sbarcò per poi riprendere il mare e continuare la sua missione: “Colpiamo le macchine, ma salviamo gli uomini”.
Il cinema superbamente barocco di Edoardo De Angelis trova nella parabola di Todaro materia vibrante di quella profondità quasi arcana che lo caratterizza. La stessa sentenza lapidaria che il Comandante affidò in risposta alle critiche dell’ammiraglio tedesco – “Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle” – è proprio la chiave d’accesso all’intero impianto espressivo e simbolico del film, perché rimanda esattamente a quella profondità di campo storica, culturale e spirituale che il personaggio offre. Comandante è un film che celebra l’unione quasi futurista della carne e dell’acciaio, dell’Uomo e della Macchina, ma lo fa guardando all’insieme di umanità e personalità che compone la complessità della scena: uomini non militari, ognuno con la sua lingua, la sua indole, le sue credenze, le sue azioni, abitudini, superstizioni…
Lo fa tenendo fede anche alla magnifica lezione del grande Francesco De Robertis, il regista comandante della Regia Marina che insegnò a Rossellini il neorealismo con film come Uomini sul fondo e Alfa Tau!, che cita più volte nei gesti, nelle situazioni, nell’insistenza sui caratteri regionali, sui dialetti. La spinta partenopea che il napoletano De Angelis imprime alla tonalità complessiva è parte della sua antica sensibilità nobiliare borbonica, del portamento culturale e spirituale che lo caratterizza da sempre, sino all’eduardismo delle sue ultime prove. Comandante resta come un film evocativo più ancora che rievocativo, panico e pulsionale nella raffigurazione esoterica del suo protagonista, nella caratterizzazione misteriosa e schietta di un uomo dotato di intuizioni e veggenza, capacità di leggere il futuro nel presente, di ascoltare le voci arcaiche e di comprendere quelle molteplici del presente. Qualche eccesso, qualche ingenuità sono frutto di un afflato affabulatorio letteralmente eccessivo, che fa parte dell’indole del regista. Ma Pierfrancesco Favino ha il merito di tenere la barra di un personaggio difficilissimo, sempre sul filo della retorica e dell’enfasi caratteriale, eppure sempre coerente con una raffigurazione tanto cubitale quanto eterea, umbratile e traslucida del Comandante Todaro. L’ensemble dei personaggi regge poi il corpo del film e funziona perfettamente, immerso nelle tonalità calde, accoglienti di carne e di metallo della superba fotografia di Ferran Paredes Rubio.