Nel 1965 negli Stati Uniti il diritto di voto non era esteso automaticamente alla popolazione nera. Al Sud vigeva ancora la segregazione razziale e ogni richiesta di essere inseriti nelle liste elettorali veniva ignorata, derisa, contrastata o soffocata nella violenza. Ci vollero tre marce e molta sofferenza perché si potesse iniziare a parlare dei diritti civili estesi a tutti e perché l’opinione pubblica venisse finalmente sollecitata a schierarsi, uscendo dal silenzio.
Questo, in estrema sintesi, il racconto di Selma – La strada della libertà terzo film di finzione della regista afroamericana Ava DuVernay (dopo I Will Follow e Middle of Nowhere, quest’ultimo premiato per la regia al Sundance nel 2012) che mette al centro dell’attenzione il rapporto di forza tra Martin Luther King e l’allora Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson.
Si procede per episodi, dalla consegna del Premio Nobel per la Pace al discorso finale a Montgomery, capitale dell’Alabama, dove bianchi e neri non potevano condividere le stesse scuole. Un percorso pieno di ostacoli per il reverendo illuminato e pieno di coraggio, che, però, tradiva la moglie (ma nel film resta solo un vaghissimo accenno, quasi subliminale, come a voler tacere, senza, però, poterlo fare). E tra questi ostacoli vanno contati i numerosi colloqui con il presidente, appunto, il delicato rapporto con la moglie, il confronto con gli attivisti del movimento pacifico che cresce attorno al malcontento degli afroamericani maltrattati.
L’America di ieri come quella di oggi, sembra volerci dire la regista, che affida al discorso politico tutta la sua apprensione, dimenticando il film, soffocandolo nella necessità di ricostruire fedelmente e alla perfezione ogni dettaglio storico, incastonandolo l’uno nell’altro come un meccanismo ad orologeria che, però, finisce per mancare di leggerezza, spontaneità, invenzione e, paradossalmente di “racconto”. Perché se da un lato ci si commuove nel vedere quest’uomo caparbio, che non si scoraggia mai e sembra parlare con il suo stesso destino, ripetere parole e gesti necessari, dall’altra si resta stupiti da una scelta stilistica tanto convenzionale. Il primo film mai realizzato su Martin Luther King, prodotto dalla Plan B di Brad Pitt e da Oprah Winfrey (che si ritaglia il ruolo dell’infermiera che venne licenziata dopo aver tentato più volte di iscriversi nelle liste elettorali), non ha il respiro del suo personaggio, non sa aprire lo sguardo oltre i microcosmi, oltre le singole vicende. E così, quella che doveva essere descritta come una importante conquista, la marcia finalmente portata a termine dopo due tentativi falliti, senza violenze né violazioni dei diritti, si conclude con un prevedibile montaggio in parallelo delle riprese d’archivio di quella giornata esaltante e vittoriosa. Non c’è retorica, certo, nella descrizione di questa figura tanto carismatica, ma non c’è neppure freschezza di sguardo. Avvolti nello spessore di luci e colori pastori, i personaggi sembrano confinati in un’aura di rievocazione che la precisione della scrittura non riesce a salvare.
Il maggior pregio di Selma sta nell’aver saputo scivolare oltre la mitologia eroica di certo cinema agiografico, di aver fatto del suo protagonista un politico astuto e uno scaltro comunicatore. Ma tutto questo è raggiunto sacrificando passione e tensione drammatica, trasformando un momento tanto cruciale in un traguardo da osservare in silenzio. Insomma, si accavallano pregi e difetti, obiettivi centrati e ambizioni mai avanzate. Là dove cercavamo l’energia della leggenda, abbiamo trovato la concisione della cronaca.