La prospettiva sarebbe anche giusta, perché aggira il territorio vischioso dell’agiografia in vita e si tiene al contempo alla larga dal pregiudizio. Ma Zlatan – nelle sale italiane dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma – è un film di formazione parecchio esile, che mantiene poche delle promesse elargite: al dunque, è agonisticamente spento, oltre a non saper cogliere né approfondire (forse nemmeno a cercare) le sfumature, adagiandosi piuttosto su una ricostruzione dimessa dell’infanzia e della parte iniziale della carriera di Ibrahimović. Un ritratto che poi si dipana fino al momento in cui il calciatore acquisisce una chiara dimensione internazionale, passando dall’Ajax alla Juventus, dalla protettiva Eredivisie alla mediatica Serie A (tale era quantomeno in principio di millennio, magari ora un po’ meno). Non è il primo film in assoluto a mettere a fuoco il soggetto: nel 2015 c’era già stato un documentario, sempre di provenienza svedese (Diventare leggenda), mentre nel 2019 al Trento Film Festival si è visto un bizzarro cortometraggio d’animazione, Zlatan in the Slopes, a cui lo stesso attaccante ha prestato la propria voce. La base da cui muove la nuova narrazione cinematografica è l’autobiografia Io, Ibra, che il fuoriclasse scandinavo ha confezionato nel 2011 insieme a David Lagercrantz, trasposta in una sceneggiatura cinematografica da Jakob Beckmann, quindi diretta da Jens Sjögren.
La struttura del biopic non è lineare né strettamente cronologica, ma si articola in tre diversi momenti di differente ampiezza, che si incastrano tra loro e rendono con passabile approssimazione l’idea del contesto in cui cresce il ragazzo, figlio di immigrati di area ex jugoslava (papà bosniaco, mamma croata), e delle difficoltà che incontra, soprattutto nell’ambiente scolastico e più in generale nelle relazioni interpersonali. Ma è un ritratto fin troppo superficiale ed educato, che non riesce a trasmettere la rabbia compressa del bambino (e poi dell’adolescente) sballottato tra le case dei due genitori, inquadrato dalle istituzioni come bisognoso di sostegno scolastico mirato. L’unica sorpresa (se così si può chiamare) del film, che va a increspare il modesto affresco tratteggiato, è la fuorviante sequenza d’apertura, quando durante una partitella da cortile, un ragazzone che assomiglia terribilmente – per stazza, tratti somatici e…strafottenza – all’immagine attuale di Ibra, cerca di bullizzare un bimbo biondo e dall’apparenza delicata, per di più impegnato nel ruolo di portiere, che si rivela invece essere Zlatan stesso da piccolo. Se si esclude questo isolato episodio, la ricostruzione della vita nel quartiere di Rosengård, alla periferia di Malmö, pare addirittura (e incredibilmente) priva di quei contrasti che sono tipici di realtà composite in cui crescono fanciulli e giovani. Il copione sembra più interessato a mostrare, con la complicità di una messa in scena statica, i segni precoci del guascone spavaldo e arrogante (eppure profondamente carismatico) che Ibra sarà nella maturità calcistica, che non a indagare le situazioni che determinano la sua giovanile irrequietezza, poi parzialmente incanalata, ma pronta a esplodere occasionalmente in reazioni spropositate. Con il risultato che il personaggio – che pure è interpretato con evidente applicazione e non poca aderenza posturale dai giovani attori che si danno il cambio nel vestirne i panni – resta nel limbo abitato da quelle figure cinematografiche non particolarmente attrattive né respingenti, che non suscitano sentimenti di antipatia o di empatia, lasciando sostanzialmente indifferenti gli spettatori.
Indifferenza che non ha mai colpito il vero Zlatan Ibrahimović, talismano da vittorie (quasi) assicurate in ogni città e nazione in cui è approdato, idolatrato nella stragrande maggioranza dei club dei quali ha vestito i colori, ma pure sopportato a fatica in altri (come il Barcellona, in cui non si è di fatto mai ambientato anche per il cambio di attitudine di Pep Guardiola nei suoi confronti). Se i furti di bicicletta di cui si rese protagonista da ragazzino sono “derubricati” a scherzi, e certi episodi oscuri non vengono estratti dalle relative zona d’ombra, anche il caratteraccio di Zlatan risulta trattato con malcelata condiscendenza. Ciononostante (o forse, proprio per questo) l’alchimia con lo spettatore non scatta praticamente mai; e così tra Luciano Moggi che sfiora il macchiettistico (come a volte succede anche alla figura paterna) e un Mino Raiola somigliante fisicamente ma presentato alla stregua di un “maître a penser” anticonformista, ci si consola giusto con il filmato d’archivio che illustra più volte l’ultima sensazionale marcatura realizzata in maglia Ajax, quando Ibra fece sedere mezza squadra avversaria per siglare il suo gol forse più bello. Una cosa è certa: la straordinaria carriera di Zlatan avrebbe meritato ben altro canto cinematografico.