Il dolore dell’uomo di fronte all’imperscrutabilità del mondo, con tutti i segni (di Dio? della natura?) che in esso sono disseminati, nonostante e insieme al silenzio che risuona ovunque. Più che un film sul silenzio di Dio, però, Silence è un film che interroga questo silenzio e cerca di interpretarlo, sapendo che resterà un enigma. Il progetto che Martin Scorsese custodiva da quasi trent’anni è, sorprendentemente, un film che non risente del tempo passato al punto da insinuarsi con elegante tristezza nell’urgenza dei fatti odierni, esaltando la “modernità” dei suoi personaggi, caparbi e confusi e piccoli, letteralmente persi dentro un’impresa titanica. La sceneggiatura, basata sul romando di Endo Shusaku, è firmata da Scorsese e Jay Cocks, lo stesso con cui il regista di Taxi Driver aveva scritto Gangs of New York e L’età dell’innocenza. Scelta non casuale poiché i tre film tradiscono importanti somiglianze, la tensione sottopelle che viene soffocata in ogni scena – proprio come i cristiani nel Giappone del XVII secolo, che vivono il culto di notte, nell’oscurità e nella paura – la freddezza dei luoghi, spigolosi, fangosi, inospitali e bellissimi, le immagini cupe e metalliche, le parole che tanta parte occupano in quest’opera intensa ma mai ridondante o celebrativa. E non solo per il fatto che non c’è vittoria nella storia dei due giovani gesuiti partiti dal Portogallo per andare a recuperare in Giappone, dalle parti di Nagasaki, il loro maestro, quel padre Ferreira che ora le voci dicono abbia rinnegato la fede cattolica in favore del buddismo. Scorsese, infatti, sceglie i toni di una spirituale sottomissione, una specie di osservazione timorosa, che lo porta a indugiare su riflessioni importanti e sollevare dubbi ancora più ampi. Non c’è spazio per le certezze e quella verità che padre Rodrigues tanto declama, ne esce malconcia o, almeno, ridimensionata nel suo valore pratico, perché non c’è mai qui la volontà di scalfire la verità di Dio, ma di scandagliare le mille sfumature della verità degli uomini.
L’uomo che si confronta con l’uomo in un percorso infinito che segue intelletto e fede, la ragione e il sentimento. Come se la religione per Scorsese fosse un percorso da fare coi piedi sanguinanti (come non pensare allora a Kundun), dalle spiagge pietrose e isolate, fino al centro della vita sociale delle città caotiche e crudeli. Secondo questo percorso, il film si costruisce via via come un dialogo, in cui Dio ha volto e voce umana, è disperazione e desiderio, tormento ed estasi, ma non è mai interlocutore. È pensiero, non corpo (come, invece, era tenacemente in L’ultima tentazione di Cristo). È l’ipotesi più luminosa dei due padri gesuiti, la luce che li precede in questo viaggio verso il sole, dove trovano, però, il buio. Padre Rodrigues dialoga con i cristiani costretti a nascondersi e trova in loro una fede diversa, plasmata sulle loro vite di pescatori e contadini poverissimi – che vedono nel Vangelo la liberazione dalle sofferenze terrene – o in un circolo vizioso di peccato e pentimento, come accade al più tenace dei personaggi, il selvaggio Kichijiro, che accompagna i due evangelizzatori e li tradisce e abiura ripetutamente, per debolezza o paura, ma segue il gesuita sopravvissuto e lo interroga, come una spina continua nelle certezze da manuale del religioso. Scorsese ci mostra la vita come una passione terrena, che si ripete sempre uguale per gli uomini di tutti i tempi e in tutti gli angoli del mondo. A rivelarlo è lo stesso inquisitore, terribile e al tempo stesso moderno esponente del potere: non sono le idee il suo obiettivo, ma la forma in cui esse si organizzano. Per lui abiurare è una pura formalità, un semplice gesto del piede che non deve necessariamente custodire il pensiero profondo dell’uomo. Film di gesti che diventano rappresentazioni filosofiche dell’umanesimo scorsesiano, come in Al di là della vita, il film più vicino a Silence per l’intensità asciutta dei segni, che sono preghiere liberate al vento, al sole, all’acqua del mare, nella scena straziante dei tre contadini uccisi sulle croci in riva al mare. Dopo un inizio che sfiora il thriller (la vertiginosa inquadratura dall’alto delle scalinate, con i tre padri gesuiti ancora in Portogallo), Scorsese rievoca Mizoguchi, architettando ambienti lineari e semplici, dove, però, si accumulano oggetti, personaggi, situazioni, in un continuo montaggio interno, allusivo e fortemente iconico, destinato a turbare lo spettatore messo di fronte ai turbamenti insanabili del protagonista. Non c’è armonia ma estrema raffinatezza formale, l’equilibrio di un nodo irrisolvibile che vede antagonisti sofferenza e fede, superbia e martirio, l’io e gli altri.