Aaron Sorkin cerca e trova. Cerca piccole storie che si snodano su più grandi scenari per raccontare i tratti di un Paese attraverso un punto di osservazione circoscritto, ma riflesso di una condizione più generale, di una storia più profonda. Il meccanismo narrativo, per questa vicenda vera che attraversa anche la storia del cinema, ma che, per una sua parte, si fa specchio di un pensiero che fu dirimente nell’America degli anni ’50, non differisce molto dal suo precedente Il processo ai Chicago 7. Being the Ricardos – visibile su Amazon Prime dopo una molto superficiale distribuzione in sala negli USA – ricalca, infatti, le orme del precedente film dello sceneggiatore e ora anche regista hollywoodiano, che ancora una volta sceglie una storia non proprio comoda per gettare una luce trasversale, ma di chiara intensità, e al contempo realizzare un film complesso nella sua struttura con uno sguardo al passato, ma anche con il desiderio di parlare del presente. Di ripercorrere attraverso una vicenda privata gli anni del maccartismo con il peso che quella caccia alle streghe ha avuto su ogni forma espressiva che volesse offrire la rappresentazione di un’opinione, di un’idea sulle cose del mondo e di raccontare un’originale vicenda familiare che nacque da un colpo di fulmine e si arenò su un fazzoletto macchiato di rossetto.
E, infine, di restituire agli appassionati di storia del cinema la figura, per nulla banale o trascurabile di Lucille Ball, detta Lucy, attrice comica della Hollywood di quegli anni destinata alle sitcom televisive e ai varietà radiofonici di intrattenimento, ma con più alte e fondate ambizioni e di raccontare, incidentalmente, anche la vicenda umana di Desi Arnaz musicista e attore di origine cubana, fuggito dopo la rivoluzione nel suo Paese e approdato negli Usa e, infine, marito di Lucille. Sorkin sceglie quindi di imprimere al suo film una multidirezionalità che, con la sua sceneggiatura ad incastri successivi, controlla perfettamente senza disunire le storie, ma anzi quasi a restituire la consequenzialità degli eventi che si verificano, di volta in volta, dentro il vortice di quegli stessi condizionamenti che costituiscono le stesse sfaccettature del racconto. Tutto accade in una settimana che diventa cruciale per la carriera di Lucille, Nicole Kidman, e Desi, Javier Bardem, per il loro futuro di coppia e anche per la fortuna o meno di una seguitissima sitcom televisiva dal titolo I love Lucy che nel film diventa Lucy e io. Tutto comincia il lunedì quando si diffondono due notizie che riguardano Lucy e Desi. La prima è che su una rivista scandalistica è comparsa una fotografia di Desi con un’altra donna. Alle ire di Lucy, già sposa innamorata del marito, questi le ricorda che la fotografia è vecchia di sei mesi ed è stata scattata in un’occasione in cui anche Lucy era presente. La seconda notizia la trasmette la radio mentre i due sposi si stanno riconciliando. Lucille Ball già indagata per attività antiamericane, benché scagionata dalla Commissione di indagine, diventa protagonista dello scandalo montato dalla stampa che la definisce comunista.
Un’accusa del genere, se confermata, avrebbe escluso la Ball da ogni set, cinematografico, televisivo e radiofonico, hollywoodiano. La settimana si snoda attraverso il racconto di un dietro le quinte che riguarda la sitcom in lavorazione, la paura di Lucille di perdere la sua vita d’attrice pur nella consapevolezza di avere operato in gioventù una scelta politica dettata da principi irrinunciabili, le tensioni familiari per i sospetti sempre in agguato sui tradimenti di Desi e il desiderio e l’ambizione di Lucy per una carriera in cui riconoscersi più che per quella della casalinga televisiva in attesa del marito. In altre parole, tanta carne al fuoco, che trova un ulteriore inciampo nella nuova gravidanza di Lucy che mette in forse il suo futuro nella serie non potendo le major e gli sponsor fare vedere in TV una donna incinta. Ci sono temi per almeno tre o quattro film, ma Sorkin fonde queste direzioni e affida tutto non solo alla sua mano che sa farsi sicura nel dominare questo apparente disordine in un ordine di scrittura che non sa di ingessatura, ma soprattutto trova una Nicole Kidman che sa dominare con la sua presenza magnetica il film, muovendosi agile nei panni della sposa innamorata, della donna in affari, della rompiballe inopportuna, della donna con il senso dello spettacolo, ma con il grande rispetto del pubblico. Una Kidman come forse mai si era vista, vero centro gravitazionale del film e volto perfetto di donna volitiva e decisa lontana da ogni compromesso e da ogni ipocrisia di maniera.
Being the Ricardos, dal nome della famiglia protagonista della sitcom, diventa un esempio di scrittura e di cinema che sembra autogenerarsi, moltiplicandosi nella incessante superfetazione di temi e sottotracce che la storia stessa alimenta. Realizzato in forma di documentario con chi ancora può direttamente testimoniare di fatti e personaggi, anche se oggi molto anziano, continua a raccontare dei tempi d’oro della televisione quando le serie tv erano seguite da 60milioni di spettatori, tanto per rendersi conto dell’impatto mediatico e delle possibilità di sfruttamento pubblicitario che un’operazione del genere poteva avere. Ma il film con la sua perfidia narrativa e l’agilità interpretativa di Nicole Kidman sa essere molto altro e non ultima una indagine sui rapporti di coppia nel mondo del show bussiness, le relazioni difficili e complesse che si legano in quel dietro le quinte dello spettacolo che con la sua edulcorazione copre ogni falla e, infine, racconta un pezzo di storia del cinema come un piccolo saggio argomentato che diventa però anche dimostrazione ed esempio di struttura narrativa inconsueta, per un film sorretto da un lavoro che dalla scenografia alla fotografia, dalle musiche al lavoro sui costumi, condensa il mito del cinema come brillante forma espressiva, abbagliante concettualità narrativa, alchimia dello spettacolo che sa assorbire ogni contrarietà e dentro la quale brillano luci insospettate come quelle di Lucille Ball, antidiva dimenticata, cui Sorkin sa restituire un posto in prima fila in quell’arena dello spettacolo in cui il cinema trova ancora largo spazio.