Com’è stata la tua guerra?” chiede Vivienne a Olsen, appena tornato dal fronte per combattere contro la schiavitù. “È stata lunga. E com’è stata la tua guerra”, le risponde lui e noi già sappiamo che Vivienne ha combattuto una guerra quotidiana contro il patriarcato e il potere e, che invece di fuggire, è rimasta a servire whisky in un saloon o a coltivare fiori in mezzo ad un deserto di rocce e sabbia grigia. The Dead Don’t Hurt è il secondo film da regista di Viggo Mortensen (dopo Falling – Storia di un padre) e siamo di nuovo nei territori scivolosi delle relazioni famigliari. Padri e figli che costruiscono i loro discorsi, interiori o pubblici, attraverso l’assenza o/e il ritorno, uomini e donne che vivono per scoprire e combattere ognuno la propria battaglia. Come il padre di Vivienne, che, in uno dei molti flashback, parte per essere ucciso o Olsen che si arruola nell’esercito dell’Unione per fare anche lui “ciò di cui aveva bisogno”. Mortensen utilizza lo schema del western per impostare un racconto di continui andirivieni temporali, spezzando, la continuità narrativa secondo un andamento efficacemente discontinuo. Torna alla mente Gli spietati di Clint Eastwood, per lo sguardo femminile che sovrasta ogni altro sguardo, e per il viaggio in cerca di vendetta o libertà che porterà padre e figlio a cavallo verso il mare.
Ma The Dead Don’t Hurt è anche un film di dettagli e di primi piani e di silenzi e musica sommessa e a suo modo minimalista. Western atipico pur nella sua classicità crepuscolare, in cui Mortensen filma la città di San Francisco come un territorio di conquista e la frontiera del Nevada come un angolo (seppure crudele) di silenzio. Regista, sceneggiatore, produttore, interprete e perfino autore delle musiche, ci racconta una storia romantica, ma anche quella di due stranieri (lei figlia di francesi immigrati in Québec, lui danese) in un paese che fatica a riconoscere e accettare le sue stesse istanze di modernità. Come la Francia ai tempi di Giovanna d’Arco. “Volevo essere forte. Non ho mai voluto essere salvata” dice ancora Vivienne sul letto di morte, dove sogna ancora una volta il suo cavaliere in armatura attraversare la foresta. Non ne vedremo mai il volto a significare la libertà profonda insita nel cuore di una donna cresciuta con la finestra aperta, per poter volare. Ed ecco che comprendiamo fino in fondo la sua scelta di restare e trasformare in bellezza e gentilezza il dolore e l’arroganza.
Il tessuto emotivo di tutto il film è costruito sul personaggio di questa donna sorridente e aperta, forte e resiliente, che insegna al figlio il francese, come segno distintivo di un’identità che non dovrà essere corrotta. “Di chi è?” chiede subito Olsen al suo ritorno trovando questo bambino di cui non è il padre. “Mio” risponde Vivienne, che spegne con una parola di appartenenza ogni possibile conflitto e ogni equivoco. La fisicità di questo western sta tutta nell’espressività di Vicky Krieps, cui con un fertile paradosso, fa da contraltare l’elemento meditativo di un uomo silenzioso, che vediamo per la prima volta seduto su una botte a scrivere sul suo inseparabile taccuino e che, nel finire del suo lungo viaggio circolare, insegnerà a scrivere al figlio.