Il virtuoso Alejandro Gonzalez Iñárritu prova a lavorare sulla riduzione, cercando compensazione in luce, suoni, vuoti e natura. Non che Revenant sia un film di desertificazione dei segni ridondanti, cui ci ha abituati il regista, solo che restano sepolti sotto terra, neve, acqua, per affiorare talvolta con discrezione, talvolta con prepotenza. Semplicemente Iñárritu mette alla prova se stesso uscendo dalla città, per lavorare di nuovo sul tempo, che qui non si spezza e non ritorna indietro, ma si espande, dilatandosi, confondendosi, quasi astraendosi, aggiungendo allucinazioni alla visione e sottraendo percezioni ai restanti sensi. Strano per un film che racconta la storia di una “guarigione” dalla morte da parte di un cacciatore di pelli devastato da un orso. Perché la lunga odissea di Hugh Glass altro non è se non un viaggio tra miraggi e ossessioni, una sorta di fuga che è anche caccia o vendetta. Per goderne, però, bisogna dimenticare la sceneggiatura e non pensare al romanzo cui si ispira, né al precedente Uomo bianco, va’ col tuo dio! (certo, rinunce non da poco). E non bisogna aspettarsi un film selvaggio nel senso herzoghiano, anche se all’inizo, nella battaglia delle frecce, non possono non venire in mente Aguirre e le frecce che colpiscono la sua spedizione scellerata lungo il Rio delle Amazzoni. Anche lì piovevano dal cielo, lanciate da un nemico invisibile, imponendo un silenzio innaturale e amplificato. Ma Herzog non scopriva il mistero, anzi, lo annodava a quelli più densi del protagonista e trasfomava un fatto in pura visione, sprofondando il film e gli spettatori in un abisso da far girare la testa.
Iñárritu non è Herzog, certo, ma gli va riconosciuto il merito di inventare il suo cinema ad ogni film e di inserirlo ogni volta in un lungo incubo individuale, che si apre all’esterno solo per depistare e ingannare le attese, come quando in Birdman Riggan Thompson fa un lungo giro attorno al teatro dove sono in corso le prove. Un piano sequenza che dovrebbe contestualizzare (forse anche relativizzare) la furia del protagonista e che, invece, trasforma anche quelle poche strade di Manhattan in un tunnel viscerale, portando all’esterno quello che era racchiuso all’interno. Per Revenant si procede nello stesso modo, ma ampliato ed esasperato, perché non c’è un percorso didascalico che dal dentro porta al fuori. Qui tutto è spettacolare. Gli spazi, le scene d’azione, la natura indifferente in formato panoramico. Ogni cosa ha già la sua forma trasfigurata, è già diventata ossessione da perseguire con fissità, in modo acritico, istintivo e irrazionale. Non c’è quasi nulla di razionale in questo film. Nessun gesto sembra essere la conseguenza di quello precedente. Tutto convive e si impregna della allucinata commistione di brutalità e necessità. Nel 1820 l’America del nord era un coacervo di violenze e di caos (quasi come il mondo di oggi). Avventurieri, eserciti, pionieri, cacciatori, inglesi, francesi, civilizzatori, popoli nativi accecati e sterminati. Tutti a cercare di portar via qualcosa da questa terra ricca, dove, però, non c’è possibilità per nessuno di fare un buon incontro. Come belve spaventate e feroci gli uomini si muovono depredando e fuggendo, ognuno imparando presto le usanze spietate dei propri simili nemici. In questa contaminazione selvaggia ci si rende conto che avversari e alleati si scambiano gli stessi gesti, nel segno della crudeltà esibizionista e inappagante. In questo Iñárritu vince la sua scommessa, difficile e scomoda. Sceglie la strada impopolare della deriva e la porta avanti, assecondando lo spaesamento come stato di incoscienza del protagonista, che abbiamo lasciato sotterrato e sanguinante e ritroviamo chissà quando, redivivo a costruirsi immagini incoerenti davanti agli occhi. La stessa vendetta, che sia reale o immaginaria, è poca cosa una volta ottenuta (posto che non sia solo un’invenzione della volontà). Quando uccide il suo nemico, questi diventa un corpo ormai insignificante, uno dei tanti, che scivola nell’acqua gelida e sparisce.