Ancora un film sulla vita e sulla morte per Gus Van Sant. Anzi, un film sulla perdita di ciò che si è lasciato andare ancora prima di accorgersene. La competizione di Cannes ospita, infatti, lo splendido The Sea of Trees, racconto di viaggio, girato tra il Giappone e gli Stati Uniti, con Matthew McConaughey, Naomi Watts e Ken Watanabe raffigurati come fossero fantasmi erranti tra i sentieri di una memoria in cui si confondono le paure e i sentimenti. Succede spesso nel cinema di Van Sant, dove le derive fisiche assecondano i percorsi di smarrimento dei suoi personaggi, attraversando luoghi o territori esistenziali che spesso si sovrappongono e si scambiano. L’idea nasce da un luogo: Aokigahara, foresta giapponese considerata il miglior luogo dove morire. Pare che qui vengano da ogni parte del mondo a suicidarsi, e qui approda, nel suo dolore anche Arthur, marito devastato dalla morte della moglie, che acquista un biglietto di sola andata per il Giappone e si fa portare da un taxi proprio all’ingresso di questa immensa estesa di alberi. Pochi dettagli, primi piani che si susseguono velocemente, e ci si ritrova in una dimensione di pura allucinazione. Arthur, come i personaggi di Gerry dispersi nel deserto americano, non sa cosa cercare in un luogo tanto misterioso e mutevole, e trova un amico, ugualmente disperato e disperso in cui specchiare il suo dolore e con il quale rimettere letteralmente insieme i pezzi. Ancora una volta si tratta di trovare qualcosa di sé in una sorta di estasi visionaria, scavare dentro pensieri e ricordi scomparsi per trovare il filo di un discorso andato perduto. Questa, in sintesi, la vita di Arthur e di sua moglie Joan. Incompresi e sconosciuti a se stessi, e quindi infelici. Fino allo scontro con la morte come limite troppo estremo per ricominciare. Occasione offerta al primo, che Van Sant coglie con un gesto filmico fatto di rarefatta delicatezza e di frammenti da ricomporre come il più classico dei puzzle.
Proprio come questa foresta che confonde le idee, il ritmo del film segue un percorso tortuoso, senza una linea temporale precisa. Si parte dai ricordi e si procede in profondità fin dentro i dettagli dimenticati. Scene di vita famigliare e squarci di sinistre avventure tra alberi che cambiano aspetto e prospettive. Ogni controcampo può riservare una sorpresa e svelare un cadavere, una luce di brillante bellezza oppure un angolo minaccioso e lugubre. Il tutto segue un andamento quasi ipnotico, dentro ossessioni che diventano incubi. In questo senso è più che mai necessario lo sdoppiamento di un personaggio tanto complesso e dolente. Perché Takumi è una sorta di alter ego di Arthur, la parte di sé da salvare e da far riaffiorare alla vita. Con loro le immagini e le immaginazioni reciproche trovano un compimento e una via: la scala verso il paradiso che uno indica all’altro, le briciole da lasciare per ritrovare la strada, il caos da trasformare in occasione di rinascita. Gus Van Sant racconta una storia intrisa di significati e di tributi ad un cinema di leggera saggezza, con cui condivide la tensione verso un attimo preciso e imprendibile della vita di un uomo, in cui si comprende il senso nascosto di ogni cosa.