Touch di Baltasar Kormákur e gli infiniti modi di dire e non dire

Una storia rivissuta tra memoria e rimpianto. Il nuovo film di Baltasar Kormákur Touch è un mélo intimo, raccontato come sottovoce, in piena sintonia con il mondo che si stava fermando nelle prime settimane di pandemia. Gli scossoni sono perfetti per rievocare il passato ed è quanto accade a Kristofer, anziano, malato e deciso a chiudere ferite rimaste aperte da tanto tempo. E così il racconto di dipana lungo diverse linee temporali, spezzettando la continuità, perché ci sono cose che hanno cambiato il corso degli eventi e ancora persistono. Kormákur si ispira al romanzo omonimo di Ólafur Jóhan Ólafsson e tratteggia i suoi personaggi con rapidi e delicati tocchi, facendoli vivere davanti agli occhi dello spettatore a partire da due mani che si toccano alla luce della luna, che è fredda. É stato un contatto fisico a cambiare le vite di un giovane Kristofer (Palmi Kormákur, figlio del regista), studente islandese a Londra e di Miko (la cantante Kôki), giapponese misteriosa e ribelle, figlia del proprietario di un ristorante. La fine degli anni Sessanta si fa sentire con tutte le istanze di libertà e di cambiamento, riempiendo l’aria, rendendola frizzante e poi indifferente, mentre i piccoli eventi si scontrano con quelli grandi e le canzoni risuonano come messaggi. Il tutto in una dimensione di flagranza talvolta così profonda da far girare la testa, perché ci si sposta tra Inghilterra, l’Islanda e Giappone in cerca di risposte a domande formulate nel tempo che ancora risuonano.

 

 

Touch è anche una corsa contro il tempo, perché tutto ci dice che stanno passando i giorni senza rimedio, mentre i colori saturi e la grana delle immagini si alternano a luci fredde, pervase di malinconia e ancora a bagliori accesi o semplici riflessi. Non un film perfetto, anzi, discontinuo e talvolta carico di segni, eppure un film sincero, in cui si insinua l’ombra potente di un passato più tragico, quello di Hiroshima, che Kormákur descrive in una forma teatrale, arrivando a sfiorare il didascalismo. Come a voler tentare una strada nuova, che non preme sul dramma, ma cerca un’obiettività inedita per descrivere la catastrofe della bomba atomica. E poi ci sono le continue telefonate della figlia di Kristofer, interruzioni ad una continuità che rischia di precipitare in un’altra dimensione, tra i ricordi di un anziano, i desideri, le ansie, il viavai dei fantasmi rimasti a fare capolino. Una voce che ci rincorre per tutto il viaggio, altro segno quasi tangibile a dimostrazione che gli sconvolgimenti possono accadere nelle vite normali di ciascuno di noi, creando boati silenziosi ma indimenticabili. E mentre le parole si sommano (perché in giapponese ci sono modi dettagliatissimi per dire cose che svelano le profondità dell’animo umano) si va creando via via un universo di senso tutto spirituale.