La fine e il suo inizio. Dove sta il confine tra delirio e creatività, lucidità e follia, arte geniale e inganno fatale, ispirazione e manipolazione? Un film come Il palazzo s’interroga su questo confine e cammina senza timore verso una direzione che tratteggia i contorni di un fantasma, un’entità invisibile, una presenza che inghiotte il tempo, intreccia fascino, schegge di memoria personale e storia collettiva, interpella talenti inespressi e caducità della vita facendo emergere contrasti e dubbi, nuove domande e laceranti sospensioni. Cosa è vero e cosa è finto? Cosa rimane a chi rimane? Federica Di Giacomo racconta la storia di un palazzo romano, dei sogni che lo hanno abitato, delle illusioni che lo hanno animato, delle persone che lo hanno reso vivo. Nel cuore di Roma, con vista San Pietro, il regno dei cieli, un altro mondo. Il proprietario, come un mecenate rinascimentale, negli anni offre asilo a una eclettica comunità di amici che ne trasforma ogni angolo in un set cinematografico permanente. Mauro, il più carismatico del gruppo, dirige i condomini in un film visionario, isolandosi progressivamente dal mondo esterno fino a non uscire più dal Palazzo. Nel momento della sua morte prematura, il gruppo di amici si ritrova, chiamato a ricevere in eredità le migliaia di ore filmate del capolavoro incompiuto a cui tutti hanno preso parte.
La fine e il suo inizio. Il cuore e le periferiche. Federica Di Giacomo mescola finzione e realtà conducendo lo spettatore in un tragicomico romanzo di formazione fuori tempo massimo sul senso dell’arte e delle sue necessità, ma più a fondo sull’essenza dell’incompiuto, della realtà precaria, della marginalità che è mondo a sé. Di fatto Il palazzo è un film sulla precarietà dell’esistenza, sulla sua inafferrabile instabilità, come dichiarato dalla stessa regista: «Una marginalità non immediatamente visibile ma non meno dolente, quella di una delle prime generazioni che ha investito nell’istruzione e nella cultura per poi ritrovarsi in una precarietà endemica, un boicottaggio a livello sociale ed economico che si traduce spesso in auto‐boicottaggio. Un disagio che resta sottopelle, forse anche una difesa della propria unicità, declinata in modo autoironico e non consolatorio». La fine e il suo inizio. È anche un film sul lutto, Il palazzo. In particolare sull’andare avanti in una società che rimuove costantemente la morte. Perché se da una parte la morte dell’amico Mauro diventa l’innesco narrativo che conduce i protagonisti a ritrovarsi vent’anni dopo, scuotendone le esistenze, dall’altra il tempo della rielaborazione del lutto rivela una fitta componente emotiva che precede qualsiasi evento. Come nel precedente Liberami, il film mette in scena la soglia misteriosa dell’invisibile che in questo caso riflette il senso più profondo della morte, tanto dell’amico prematuramente scomparso, quanto della giovinezza e del gioco, fatta di domande sul senso e sulla capacità di costruire qualcosa che rimanga. Il palazzo era come un nido che proteggeva, ma al tempo stesso rapiva le sue prede emanando bellezza e comodità, vacuità e contraddizioni: «Più rimandi e più ti nasce il terrore» dice una delle protagoniste. Ed è lacerante pensare quanto sia vero. Per Di Giacomo, questa polifonica malinconia «destrutturata e tragicomica su quell’incompiuto che è stata la cifra essenziale del Palazzo» è anche un racconto generazionale sull’amicizia, sul rapporto fra il proprio tempo interiore e il tempo esterno, sulla difficoltà di cambiare. Anche se alla fine s’intravede la luce di un nuovo inizio.