Una preghiera dedicata a un mondo che si sta allontanando dalla pace: con queste parole Shinya Tsukamoto ha presentato alla Mostra di Venezia 2023 – in concorso nella sezione Orizzonti – la sua ultima regia, Hokage (Ombra di fuoco). Una preghiera che riparte dalla necessità della memoria, quella della guerra che il presente sta dimenticando e che per questo torna per la terza volta in dieci anni nel cinema dell’autore nipponico, dopo Fires on the Plain (ambientato sul fronte filippino del secondo conflitto mondiale) e Killing (che si svolgeva alla fine del periodo Edo). Stavolta siamo nell’immediato dopoguerra, presso un mercato nero che sembra una propaggine di un gangster movie di Kinji Fukasaku. Alle lotte senza codice d’onore si contrappone però la prospettiva dal basso di una locanda semidistrutta dal fuoco delle bombe incendiarie, in cui una donna che ha perso la famiglia sbarca il lunario prostituendosi. A lei si uniscono ben presto un bambino orfano e un soldato che cerca rifugio ogni notte, con la promessa di tornare sempre il giorno dopo con i soldi necessari a pagare l’alloggio. La miseria del Giappone post bellico si accompagna in questo modo alla speranza di formazione di un nuovo nucleo familiare che simboleggi la possibile uscita del passato, verso un futuro di ricostruzione. Impresa resa però impossibile dai demoni sedimentati nell’animo e che rendono ogni convivenza soltanto il focolaio di nuove violenze. Come nel folgorante mediometraggio Haze (Il muro), la locanda diventa così uno spazio sempre più chiuso, reinventato attraverso continui slittamenti dei chiaroscuri della fotografia, in cui la vita si fa costrizione e ricettacolo di incomprensioni e sopraffazioni reciproche. Un riferimento che si collega direttamente ai corpi dei soldati debilitati e ammassati nel vicolo, che il giovanissimo protagonista incrocerà nel sottofinale.
L’abbandono della locanda è quindi soltanto un atto di spostamento all’esterno delle stesse dinamiche, in cui si fa più evidente il tema dell’educazione al male perpetuata dalla guerra e dei fantasmi che tornano a perseguitare i vivi. Rese dei conti e colpi di grazia negati (come in Killing) si intrecciano a visioni stilizzate di paesaggi spazzati via dalla furia del conflitto e di nuvole che sembrano una reiterazione del fungo atomico delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Ma, a fronte di questa universalità che allunga il suo monito sul presente di un Giappone ancora attivo nella sua corsa al riarmo, Hokage rimane un film di singoli esseri umani, che Tsukamoto conduce nell’alternanza dei suoi stili più nervosi, quelli di Fires on the Plaines con l’uso aggressivo della macchina a mano, uniti a un ritmo più disteso e memore della lezione del samurai di Killing. Una vertigine stilistica amplificata dagli scenari da cinema classico, che rinnova il pensiero delle opere di Kaneto Shindo, del già citato Fukasaku o di Seijun Suzuki (si pensi al tema della prostituzione, centrale in film come Le professioniste/Barriera di carne). In questo modo, Hokage reiventa continuamente la sua scala, da piccolo film di interni, a grande e lirica opera di ampie risonanze, con cui uno dei maggiori autori giapponesi riassesta la radicalità del suo pensiero, fermo nella frontalità con cui affronta la violenza della guerra e dell’animo umano, mentre ricerca la gentilezza di chi sa offrire un pasto caldo e ribadisce la necessità della pace.