Regista e sceneggiatore singaporiano, Yeo Siew Hua classe 1985, firma il suo quarto lungometraggio, terzo di finzione, a distanza di sei anni dal precedente Huàn tǔ (A land imagined), neo-noir che si aggiudicò il Pardo d’oro a Locarno nel 2018 raccontando una storia di emarginazione e corruzione in cui un detective insonne si metteva sulle tracce di un operaio edile cinese misteriosamente scomparso. Presentato in Concorso a Venezia81, la vicenda di Stranger Eyes, analogamente al precedente film, prima guarda alla storia particolare e poi si sposta altrove aprendo scenari universali. Junyang e Peiying, due giovani sposi disperati per la scomparsa della loro bambina Bo, ricevono alcuni inquietanti dvd in cui si vede che qualcuno ha filmato la loro vita quotidiana violando la loro privacy anche nei momenti più intimi. La polizia mette la casa sotto sorveglianza per tentare di sorprendere il presunto voyeur, ma le cose non sono come sembrano. I sospetti si concentrano su di un uomo che lavora in un centro commerciale. Nero. Inizia un altro film. Cambia la prospettiva. Gli occhi sono quelli dell’uomo che ha realizzato i video, Lao Wu (interpretato da Lee Kang-sheng, attore feticcio di Tsai Ming-liang), solitario, con una madre cieca da accudire, gentile, che nel corso delle settimane precedenti ha guardato la famiglia con discrezione. Scopriremo perché e fino a quando. Nero. Inizia un altro film in cui ci si rende conto che la sparizione della bambina altro non era che un pretesto narrativo per innescare una vicenda molto più complessa e complicata finalizzata a rivelare una serie di ambigue contraddizioni che raccontano molto più delle vicende private di una coppia di giovani sposi in crisi, distratti, egoisti, soli.
Film di occhi prima ancora che di telecamere, è quindi film di sguardi prima ancora che di video da analizzare. D’altra parte, la prima immagine del film proviene dall’occhio della bambina ripresa da una videocamera e proviene da uno dei tanti video del passato che la polizia ha suggerito alla coppia di genitori di riguardare per trovare indizi validi per l’indagine. Non è un caso quindi che fin da questa prima inquadratura, nella quale la madre di Bo indossa una t-shirt con la scritta “I’m watching you”, si inizi a misurarsi con un problema di collocamento degli occhi e di tracce sparse da collocare in un grande puzzle distopico. Queste sono le condizioni, prendere o lasciare dichiara sfacciatamente Yeo Siew Hua, e il gioco può cominciare. Sebbene la tentazione sia quella di guardare il film come un’analisi sociale sull’ipertrofismo tecnologico e la manipolazione mediatica, l’operazione condotta dal talentuoso regista singaporese mira alla definizione di uno stato d’animo e di una condizione politica sempre più fuori controllo: la solitudine di Lao Wu è speculare al disagio e alla rassegnazione di Junyang e Peiying analogamente a quanto vive lo stato di Singapore, sempre più guardato e controllato e, più in generale, chiunque e dappertutto, sempre più controllati e condizionati dalle immagini. Dopo la pandemia, come dichiarato dal regista, il dibattito sulla sorveglianza «si è silenziosamente spostato dalle preoccupazioni sulle libertà individuali alle discussioni sulle responsabilità sociali ma cosa significa esistere come mera immagine da percepire? Vediamo le persone come qualcosa di più di semplici modelli o tipi, riconoscendone la piena umanità con capacità d’azione, storie personali e fantasie?».
Ecco giustificata la vibrante anarchia con cui il film procede sviluppando e aggrovigliando i fili di una fitta trama che inevitabilmente porta a pensare a Orwell, a Hitchcock, a De Palma o, in particolare, al Caché di Haneke e non lascia sospetti di incongruenze e forzature. Ma, se da una parte prende forma l’architettura di un labirinto di incastri e deviazioni, ipnotico e repulsivo, capace di sovrapporre realismo e variazioni surrealiste, dall’altra nei singoli personaggi inizia a sgretolarsi la convinzione che si possa vivere senza comunicare, privandosi di stringere legami autentici, evitando la verità dell’amore. Mutando il proprio status, Stranger Eyes diventa così un film di occhi chiusi di fronte a sentimenti inespressi, come più volte ribadito dalla dolorosa richiesta di Peiying: «ho bisogno che tu mi veda! Mi vedi?». Soprattutto si trasforma in un film di sguardi negati che rivelano la sua altra vocazione intrinseca: rappresentare il limite della visione, di ogni relazione, della vita. Per questo Yeo Siew Hua lavora sull’opposizione dei contrasti e comprime il dialogo tra aperto e chiuso, distante e vicino, lucido e impulsivo alimentando sempre la convinzione che non si possa cancellare ciò che si è visto. Stranger Eyes è specchio e schermo, riflette e rifrange, ponendo sul finire la più importante delle domande: è possibile vedere tutto? La risposta non è priva di spiazzanti sorprese.