Ci sono film che vivono d’aura, respirano attraverso essa, la vestono quasi fosse un esoscheletro che ne moltiplica la forza. In qualche modo rilucono di una energia che appartiene al tempo, più che allo spazio, e quindi ne eternizza l’immanenza, cristallizza il loro essere espressione di un momento. In the Mood for Love è indubbiamente uno di questi film: opera empatica quant’altre mai (quindi anche antipatica a taluni, ovviamente…), scritta con la trasparenza di una gestualità filmica altamente plastica, frutto della virtuosità tutta posturale dei due protagonisti: amanti eternamente mancati alla colpa, che scivolano tra le loro carezze invisibili e si lasciano mentre ancora si tengono…A rivederlo oggi, restaurato, a vent’anni di distanza, In the Mood for Love è una rivelazione al contrario, l’agnizione della sua (r)esistenza, della sua incredibile tenuta estetica, inattesa e insospettata, tutto sommato. Da un film come questo, restato incastonato nella sua aura, ci si aspetterebbe in generale la caducità del gesto, la disillusione che tradisce il mood in cui, per l’appunto, s’inscriveva. E invece eccolo ancora qui nella sua opaca perfezione, francamente intatto al trascorrere del tempo: più vero adesso di quanto lo fosse alla sua apparizione.
Allora fu un’epifania, oggi è un oggetto filmico ben identificato, che – d’accordo – sfiora facilmente il vezzo, ma poi si adagia in una estetica tutta sua, che è sostanza visiva allo stato puro, diventata quasi un codice a sé. Estetizzante, disse (e dice) qualcuno, probabilmente a ragione, se non fosse che la plasticità di un’opera come questa è talmente palese da poter essere oggettivata, concretata in un manufatto filmico in cui la fotografia di tre maestri del calibro di Christopher Doyle, Pun-Leung Kwan e Ping Bin Lee si applica all’apparato plastico e figurativo di William Chang, per dialogare con l’approccio visivo ad un tempo saturo e trasparente tipico di Wong Kar-wai. Questo è un film che volatilizza se stesso come pulviscolo anche perché sgorga a ridosso del suo film gemello, quel 2046 poi classificato come il suo sequel, ma in realtà nato dallo stesso grembo, frutto della sovrapposizione dei due set, della confusione tra sguardi e location: “E’ stato molto doloroso, come amare due persone allo stesso tempo”, disse Wong Kar-Wai all’epoca… Quello sì dall’esito estetizzante, ma perché 2046 pagava fatalmente lo scotto di giungere in ricaduta obbligata dal prototipo estetico definito da In the Mood for Love, che invece ha una sua oggettualità molto necessaria, è una forma espressiva desunta dalla realtà che esprime e che allo stesso tempo definisce. È una porzione di film offerta come un intero, dilatata nel suo tempo e nel suo spazio sino ad assumere la forma compiuta di un capolavoro dell’in-finitezza… Ed è anche, del resto, la storia di una non-storia d’amore, il languido mancarsi di due corpi all’abbraccio degli innamorati… La sua estetica della trasparenza, facilmente labelizzata in seguito come griffe d’autorialità kar-waiana, è puramente conseguente a tutto questo: è un gesto filmico di straordinaria coerenza, che corrisponde alla necessità del dire e alla funzionalità del rappresentare.
La dilatazione dell’attimo, la cristallizzazione della postura, la reiterazione dei campi e dei piani, dei movimenti di macchina, lo slow motion, la cadenza quasi astratta delle azioni che ritornano…: tutto corrisponde a un film che si definisce nella mancanza a se stesso. Esattamente come Chow e Su, i due amanti di cui racconta, mancano e tradiscono se stessi nell’idealità del loro amore, che poi è lo spettro dell’amore che unisce come amanti i rispettivi consorti. In the Mood for Love è un mèlo fantasmatico, che riflette il vero melodramma che si svolge altrove: rivisto oggi, è un’opera che resta proprio in questa sua perfezione mostrativa del sentimento esposto nella sua mancanza. Chow e Su si amano nel tempo della loro presenza e si lasciano nello spazio del loro domani mancato: tutto il film è costruito sullo slittamento dei loro corpi, sul loro scorrere su livelli paralleli che non si toccano, come vetri di una lanterna magica che ne contiene il dramma. Sono loro la ragione e la principale funzione di quella estetica così precisa e infine codificata del film, che pare costruita sulla stratificazione in trasparenza di spazio e tempo, su una visualità strutturata per layers che scorrono reciprocamente. La reiterazione dei gesti degli amanti, il ripercorrere gli stesi spazi, la duplicazione su lui e su lei dei medesimi movimenti di macchina a descrivere i loro incontri… Ogni elemento di In the Mood for Love attinge a una iperbole visiva che classifica la trasparenza, visualizza il dialogo tra l’esserci e il mancare, materializza la fuga in avanti sentimentale (mèlo) dello sguardo. Questo è un film che ha dato al Cinema qualcosa!