Nel 1991 Antonio Capuano esordì con un film ruvido, a fior di nervi, che colpiva gli occhi e lo stomaco: Vito e gli altri. Con quell’opera – di radicale potenza espressiva, statica e dinamica, colma di voci e di silenzi, di ambienti ristretti nei quali immergersi per osservare una cruda quotidianità, di improvvise deviazioni per aprire nuove porte all’immaginazione, di apnee visive e sonore – il regista napoletano vinse la Settimana della Critica. Per Capuano iniziò un percorso d’autore durante e dopo quella che fu chiamata la “nouvelle vague” napoletana degli anni Novanta realizzando un cinema mai riconciliato, affrontando argomenti scomodi con visionarietà e creatività, rimanendo ancorato ai mille strati di un territorio ben conosciuto. A quasi venticinque anni da Vito e gli altri (e dopo film con i quali ha scolpito le molteplici tessere di un monumentale mosaico sociale e urbano), Capuano ha diretto, con lo spirito della “prima volta”, la consapevolezza e l’energia di una nuova “opera prima”, Bagnoli Jungle. Un film “senza un ordine, senza un senso”, ovvero un testo che, muovendosi nella giungla di quel quartiere a Ovest di Napoli evocato dal titolo, si perde, ritrova, riperde seguendo i tre personaggi principali (Giggino, Antonio, Marco) nel corso delle loro giornate consumate negli esterni e negli interni di una periferia dominata dai ruderi dell’Italsider, le cui strutture dismesse rappresentano e custodiscono la memoria di un’architettura industriale mai riqualificata, portata in primo piano fin dall’inquadratura aerea d’apertura, resa protagonista allo stesso livello delle figure che popolano il film. Come Vito e gli altri, Bagnoli Jungle è un lavoro che osa l’imperfezione, che si espande e contrae, che corre fino all’ultimo respiro e si immobilizza. Che racconta un territorio attraverso tre personaggi in rappresentanza di altrettante generazioni in tre capitoli liberi di sfumare l’uno nell’altro. Bagnoli Jungle aderisce ai gesti di Giggino (instancabile “maratoneta” per le strade del quartiere), di Antonio (che vive nella sua abitazione-mausoleo consacrata alla squadra del Napoli e a Maradona), di Marco (il cui mestiere di garzone di salumeria lo porta a fare consegne nelle case dove incontra i personaggi più strampalati). E li “pedina” ossessivamente, con una macchina da presa di volta in volta eccitata nel correre appresso a Giggino, nel diventare quel cinquantenne dalla vita costantemente instabile, oppure attenta ascoltatrice dei racconti calcistici di Antonio, ipnotizzata dal suo volto, o ancora compagna dei piccoli spostamenti giornalieri di Marco alla scoperta di appartamenti barocchi.
Questa varietà di stili, che rende Bagnoli Jungle slabbrato e sontuoso, surreale e realista, sperimentale e politico, è unita da una coerente composizione figurativa, da un pensiero filmico che, pur nello sbandare, nell’intraprendere infiniti detours, non dimentica il suo senso estetico, musicale, pittorico più profondo. Sia che lo sguardo di Capuano si posi su muri colorati di graffiti, sui binari di una ferrovia, sulle scale di un palazzo, nella commovente visita allo stabilimento dell’Italsider, fra erbacce e ruggine. La distinzione in capitoli (numerati con i nomi dei personaggi) si scioglie e il film si presenta piuttosto come una perlustrazione di esterni (con Giggino), di interni (con Antonio) e di entrambi quegli spazi (con Marco). Con leggerezza, Capuano inserisce istanti di metacinema (Marco Grieco era il bambino de La guerra di Mario); regala un personaggio meraviglioso (quello della statua dell’Italia nell’immondizia) e una scena musical inventata in una piazza; rende omaggio con applausi registrati a un grande nome dello spettacolo napoletano come Antonio Casagrande; porta nel film tracce documentarie unendosi a un corteo del primo maggio che risulta specchio dell’energia da lui messa nel filmare. Fa un film e un cinema radicalmente indipendenti di cui il cinema italiano ha grande bisogno.