Le regole ataviche di Alla vita di Stéphane Freiss

Quando un’anima nasce in questo paese le vengono gettate delle reti per impedire che fugga.
Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti.
Da Dedalus, James Joyce

 

 

Ricorre in questi giorni il centenario della pubblicazione di Ulysses, sicuramente il più famoso libro di James Joyce, spartiacque del romanzo novecentesco e fonte della futura letteratura occidentale. Perché Joyce con il film di Freiss? Il tratto comune tra queste due lontanissime figure è il rapporto conflittuale e dialettico con la religione che fu sempre considerata dallo scrittore irlandese uno degli ostacoli principali alla piena realizzazione dei propri desideri, ad un compiuto completamento del proprio spirito. Le reti di cui Joyce scrive nel suo libro di formazione, diventano terreno comune, dopo oltre un secolo, con il regista francese il cui nome, peraltro, trova un altro inatteso addentellato con la vicenda artistica joyciana. Il regista di Alla vita è in realtà un quotato attore francese, che esordì nella regia nel 2011 con il corto It Is Miracul’house, e oggi, a distanza di 11 anni da quella esperienza, ne rinnova il piacere dirigendo questo lungometraggio, che nasce dalla collaborazione italo-francese e grazie al lavoro della sempre attiva Apulia Film Commission. La vicenda è quella di Elio De Angelis (Riccardo Scamarcio) che, ereditata l’azienda agricola dal padre, lavora per reggerne i costi e gli imprevisti. Insieme all’azienda ha ereditato anche i rapporti d’amicizia con una famiglia di ebrei ultra ortodossi, che suole acquistare dall’azienda De Angelis i cedri da usare per una cerimonia religiosa. Cedri che devono essere perfetti, in quella estremizzazione inflessibilmente ortodossa del pensiero che guida la piccola comunità.

 

 

La giovane Esther, promessa sposa ad un giovane anch’egli al seguito della famiglia, manifesta sempre più vistosamente i segni della sua crisi religiosa, con l’istintivo desiderio di infrangere le regole e sovvertire i divieti che costringono la sua vita in un vicolo cieco. I precetti ebraici diventano legami dai quali liberarsi come i filatteri che si fissano al braccio per la preghiera del mattino.In questo clima di rigorosa ortodossia matura l’opposto sentimento di Esther, che nel frattempo si innamora di Elio. Il film, in definitiva, non è tanto, o almeno non è solo, il racconto di un progressivo, quanto casto innamoramento, quanto, invece, il racconto di una lenta deriva che la protagonista femminile prende rispetto agli insegnamenti familiari, e paterni in particolare. Da parte sua anche Elio è affascinato dal rispetto di regole ataviche, non vende un pezzo di terra per non rompere la tradizione di famiglia, e l’attaccamento a quell’azienda gli è costata la separazione dalla moglie e dai figli. Freiss lavora su queste direttrici, il rispetto per le regole, quelle morali introiettate nel tempo e quelle che regolano la convivenza, anche se il film non eccelle in quel sovvertimento di regole che forse ci si attenderebbe da un film che sostanzialmente tratta proprio di questo. Alla vita anzi ci propone una visione del tutto consueta nel suo trascorrere senza troppe scosse e forse se c’è un difetto in questo piccolo e per nulla saccente film è quello di rifuggire i colpi di scena, di evitare ogni sussulto, tutto accade secondo una regolata normalità dentro uno sviluppo perfino televisivo del racconto.

 

 

Il regista francese ha quasi timore d’affondare, con i suoi strumenti narrativi, il bisturi per scavare a fondo nelle contraddizioni di una ortodossia così estrema. C’è una certa fatica a contrapporre i temi della libertà e del libero arbitrio, che non prevede l’appartenenza religiosa, con quelli di una radicale scelta mistica. La decisione finale di Esther resta il segno di una comprensibile volontà sofferta, ma il pathos di questa elaborazione è quasi depurato da ogni dolore, è privato di ogni macchinoso e corrosivo lavorio. Resta un po’ stridente l’allegria dimostrata da Esther nella festa finale prima della sua partenza, con le lacrime che accompagnano l’ingresso nella nuova vita. Un lavorio che invece assume Elio, nel volto di Scamarcio eternamente cupo come nel precedente e – guarda il caso – affine film L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni. È un po’ di coraggio che è mancato a Freiss che aveva anche imbroccato una via originale che, al di là della leggera inverosimiglianza di alcuni aspetti della storia, poteva funzionare meglio e diventare una voce coraggiosamente dissonante nell’epoca in cui ci si avvia a valorizzare un pensiero unico con iscrizione alle liste nere per chi osa dissentire. Quindi ben venga un film come Alla vita, che pur con i suoi difetti racconta del nascere di un dissenso in quest’epoca. Certo, si fosse cinquanta o cento anni fa il clima sarebbe stato diverso e la frase introduttiva diventa pietra angolare di questa distanza che si fa sempre più profonda, lasciandoci alla deriva come i personaggi di Saramago.